base

home/documenti/recensioni

Egdar Morin, La testa ben fatta. Riforma dell’insegnamento e riforma del pensiero

Raffaello Cortina Editore, 2000

Recensione di Ivo Povinelli


copertinaNon Il testo di Morin tratta il delicato argomento della necessità di una riforma profonda del pensiero e lo fa mettendo in primo piano gli impliciti che pervadono le istituzioni destinate all’educazione. Responsabile di questa situazione ormai drammatica, che sta ossidando le tradizionali istituzioni dove si coltiva il sapere, è l’immaginario dell’apprendimento che, nella sua versione contemporanea, ha preteso di spazzare il conflitto sotto il tappeto.
Il tentativo di sbarazzarsi del conflitto si è riflettuto in primo luogo sull’approccio riduzionista alla conoscenza. L’attribuzione dei fenomeni a circoscritte serie di fattori con la pretesa dell’esaustività costituisce uno dei problemi di fondo del pensiero. La specializzazione delle discipline nasconde inoltre le facce di un problema che non riesce a trattare, creando segmenti di realtà troppo parziali. Diviene così difficile “collocare le informazioni nel proprio contesto” e collegare i lati multiformi di fenomeni in cui scienze umane e scienze “dure” sono ormai profondamente legate.
La stessa conoscenza, nella sua accezione più generale, viene oggi presentata come un insieme di assunti coerenti e ciò vale soprattutto all’interno delle singole discipline, data la scarsa interrelazione tra le differenti branche scientifiche. Oggi viviamo le conseguenze di questa modalità di pensiero quando riteniamo affidabili i programmi televisivi in cui la medicina risolve ogni problema, in cui la scienza svela anche la trama del crimine più fitto. Ma gli esperti del settore, spesso consci delle problematiche insite all’attività scientifica, lanciano messaggi poco rappresentativi del loro mestiere e restituiscono razionalità, precisione e prevedibilità pur vivendo sulla propria pelle i continui imprevisti e gli effetti inattesi del loro lavoro. Anche loro soffrono l’errore cognitivo, a cui Morin chiede di fare grande attenzione, perché costitutivo dei nostri processi di apprendimento. Sbagliare vuol dire tentare di applicare alla realtà regole che se poi si rivelano utili alla vita possono essere messe a regime e che, nel caso contrario vanno continuamente rimodulate per prove ed errori. E tuttavia, se le routine ci permettono di vivere nella realtà dobbiamo considerare che al mutare del mondo queste possono renderci prigionieri. Così continuiamo a costruire strade ed automobili perché sono attività che fanno crescere l’economia ma non facciamo attenzione alle malattie respiratorie e all’effetto serra provocati dai gas di scarico.
Vige ancora una concezione di mente assimilabile ad un grande bidone che è necessario riempire per bene se si vuole raggiungere lo stato di grazia di persona che sa pensare. E invece non si fa attenzione alla problematica che porta questa idea di mente, si preparano programmi sempre più ampi e si mette l’accento sul numero di titoli accademici conseguiti in base al numero di ore di lezione frequentate, rinviando la maturazione della capacità di pensiero al di fuori dei percorsi scolastici. D’altronde pensare vuol dire anche collegare ed è un processo assai più difficile e conflittuale da attivare rispetto al cumulo continuo e progressivo di conoscenze. Il cumulo di conoscenze, che per molti costituisce l’apprendimento non ha nulla di conflittuale. Non serve cambiare idea per ammucchiare un alto numero di idee dato che l’errore cognitivo permetterà di dare cittadinanza a tutto e al contrario di tutto, oppure di tralasciare ciò che non si confà alle regole fino a quando non interverrà un processo di riflessione capace di ristrutturazione e cambiamento.
Difficile anche educare gli adolescenti, che vivono stati emotivi così intensi, liquidando le loro difficoltà come momento passeggero a cui non prestare attenzione. Impossibile chiedere loro di resistere in vista di un’età adulta più semplice da vivere, impossibile chiedere loro di investire in un futuro che ormai sembra spaccato tra le mille certezze degli integralismi di varia natura e il drammatico vuoto delle sensazioni di impotenza. Auspicabile che la letteratura torni ad esercitare il suo ruolo rivelatore della complessità umana, portando sulla carta i conflitti derivanti dal nostro essere animali con capacità di raziocinio. La letteratura rivela la complessità umana, i soggetti i desideri, le passioni, i sogni e le follie, l’amore, la rivalità e l’odio, e invece la scuola si riduce al test, alle crocette per vedere se conosco l’autore di ‘Uno, nessuno, centomila’ senza preoccuparmi di comprendere le opportunità della riflessione su me stesso che gli altri possono innescare.
E che dire della difficoltà di fare i conti con il nostro essere animale? Che dire del fatto che pur non suonandoci la clava in testa minacciamo di sganciarci addosso bombe atomiche e quant’altro? Come neghiamo il fatto che scriviamo poesie e che allo stesso tempo siamo veri e propri ‘animali’, con tutto il rispetto per le altre specie si questo pianeta? “L’essere umano ci appare come totalmente biologico e totalmente culturale… ciò che è più biologico – il sesso, la nascita, la morte- è anche ciò che è maggiormente imbevuto di cultura”. Eppure siamo capaci di scrivere poesie, che rivelano “la dimensione poetica dell’esistenza umana. Ci rivela che abitiamo la Terra non solo prosaicamente- sottomessi all’utilità e alla funzionalità- ma anche poeticamente, votati all’ammirazione, all’amore e all’estasi. Essa ci fa comunicare, attraverso il potere del linguaggio, con il mistero che è al di là del dicibile.”
Altro grande fallimento dell’educazione è l’incapacità di favorire l’apprendimento della vita. Tutto si risolve nella richiesta alle nuove leve del mondo di progettare la propria vita in vista di qualche obiettivo futuro, quando ormai la complessità ha mostrato che la prevedibilità non è caratteristica del mondo naturale. La biologia ha mostrato che non ci sono programmi precisi nella vita, la teoria evolutiva ha confermato che il cammino delle specie si costruisce mano a mano, a volte grazie ad eventi imprevedibili e tanto drammatici quanto innovatori. Questo ragionamento non è relativismo puro poiché contempla il fatto che la singola specie ha imboccato un sentiero, una direzione e costruisce una propria storia che chiameremo ‘path dependence’. E’ necessario tuttavia ricondurre queste minime certezze all’elaborazione di una strategia di vita che permetta di far fronte al mondo nella sua vastità, è necessario che i giovani maturino una capacità di ristrutturazione continua delle letture del proprio passato in vista di una direzione da prendere. Certo il ‘programma’ non ha conflittualità, se ci poniamo l’obiettivo e proseguiamo sulla nostra strada possiamo riuscire comunque a costruire ciò che abbiamo scritto sulla nostra mappa. Il problema è se la mappa ci serve per orientarci o se traccia elementi che poi non hanno riscontro nel reale e divengono per noi insostenibili. Una mappa che non aiuta a mettere in relazione i vari lati della vita, con un solo cammino preciso, che non considera la possibilità di ,interruzione, modifica o ripensamento, è una mappa che va bene solo per una e una sola strada, ma che non aiuta a visitare nessun altro luogo, a fare confronti, a conoscere e quindi a poter scegliere. La letteratura propone inoltre meravigliose descrizioni della condizione umana e delle difficoltà a fare i conti con l’incertezza, il cinema e i libri possono farci comprendere ciò che non riusciamo ad afferrare nella vita quotidiana.
Scegliere è difficile, il conflitto dirompe. La scelta impone responsabilità, impone la presa in carico di quella minima percentuale di eventi programmabili nella vita di donne e uomini. Impone l’attitudine a problematizzare, ad aprire le porte alla differenza, all’alternativa, e ciò che è diverso e quindi pericoloso e allo stesso tempo indispensabile alla nostra esistenza.
Morin pone infine l’accento sulla necessità di rifondare un soggetto ‘bio-logico’ attraverso la riconsiderazione delle grandi dicotomie individuo/specie e individuo/società che racchiudono il tentativo di vedere la questione dall’una o dall’altra parte, separando e annullando gli attriti in cui viviamo quotidianamente per il fatto di essere al tempo stesso unici ma anche ascrivibili a categorie molto più ampie di noi stessi. “Dal punto di vista biologico, l’individuo è il prodotto di un ciclo riproduttivo, ma questo prodotto è esso stesso produttore… siamo a un tempo prodotti e produttori. Nello stesso modo sono le interazioni tra individui che producono la società, ma la società con la sua cultura, con le sue norme, retroagisce sugli individui umani e li produce in quanto individui sociali dotati di una cultura”. Il soggetto nasce proprio nel momento in cui la condizione determinata e determinante si incontrano, quando ciò che concerne l’individuo privato confligge con la sua natura sociale e pubblica, il momento in cui l’individuo diverrà consapevole di “portare l’alterità in se stesso”.
La crisi del pensiero potrebbe essere vista, per molti aspetti, come il prodotto dell’eliminazione del conflitto. L’eccessivo specialismo è in fin dei conti un abbandono della realtà a favore di un mondo solo in teoria coerente e inaffondabile, che rifiuta la pericolosità del pensiero divergente, ed il sistema educativo pone l’accento su caratteristiche che riflettono questo tipo di pensiero. La scuola tenta quindi di ‘riempire’ la testa di programmi e allontana dalla vita, ne elimina i conflitti cancellando allo stesso tempo difficoltà e sorprese di quella che il paleoantropologo Gould chiamava ‘La vita meravigliosa’.

Stampa il documento


Segnala questo testo ad un amico