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Nell'era delle catastrofi: appunti sul salvarsi e sul da farsi

di Luca Mori / scritto il 24-05-2009

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Oltre che delle guerre, Ottocento e Novecento sono stati i secoli delle rivoluzioni, fallite, in parte riuscite, spesso tradite. Sono già altri tempi, poiché il ventunesimo si annuncia come il secolo delle catastrofi. Quanto alle guerre, c’è chi prevede che saranno se possibile ancor più orribili delle precedenti, combattute più verosimilmente per l’acqua e per altre risorse vitali che per il petrolio. È superfluo elencare le copertine di riviste e le prime pagine di quotidiani in cui, da qualche anno, la sagoma del nostro pianeta appare deformata, stropicciata, in vario modo maltrattata, a significare la catastrofe ambientale di cui in larga misura gli esemplari più produttivi di Homo sono imputabili.
Rivoluzione e catastrofe sono termini che indicano la distruzione e la scomparsa dell’esistente: nel primo caso, però, si è ritenuto che propositi e intenzioni degli uomini potessero prevedere e guidare l’esito del rivolgimento; nel secondo caso, quello che ci riguarda direttamente, la capacità di previsione e di intervento dell’uomo è palesemente sotto scacco. Prometeo dunque sta fallendo: sono passati millenni da quando, distinguendosi dagli animali sprofondati e quasi sepolti nel presente, un qualche Homo ha alzato lo sguardo, una pietra appuntita come scalpello e un rudimentale pennello, i gesti e le parole: al passato, al futuro e allo spazio senza contorni dell’immaginazione. Ora, dopo millenni di evoluzione, noi esemplari di quella specie che ha inventato le tecniche e la pittura, il teatro e la poesia, le religioni e la guerra, la gestione economica dell’oikos e la politica – noi che ci siamo attribuiti la paternità del preveggente Prometeo e di dèi tutto-vedenti e tutto-potenti – dopo millenni ci scopriamo presbiopi e miopi rispetto alle conseguenze delle nostre condotte di vita. È singolare che ciò accada proprio negli anni in cui l’uomo è arrivato a scrutare lontano nel tempo come mai prima, con la ricerca sugli “istanti di poco successivi al Big Bang” da un lato, e con le ipotesi più avanzate sulla futura evoluzione dell’universo dall’altro.
Ecologica, sociale, economica e culturale: sono forse le principali dimensioni delle catastrofi che abbiamo dinanzi, secondo molti, e le cui spire sono già affiorate in tante parti del mondo, stritolando case, corpi e sogni umani. Non ci rendiamo ancora conto, tuttavia, che solo in parte le catastrofi sono e saranno imputabili alla natura iper-complessa dell’evoluzione dei sistemi in cui viviamo; in parte infatti seguono e seguiranno alle nostre azioni e alle omissioni; sempre, anche alla nostra ignoranza.
Qualcuno scuotendo il capo ci metterà in guardia dai “catastrofismi”. Bene, ma la domanda non può essere liquidata con lo stesso sogghigno. Se prendiamo l’ultimo libro di Lester R. Brown (Piano B 3.0, trad. it. Edizioni Ambiente, Perugia 2008), leggiamo che il budget annuale richiesto per raggiungere significativi obiettivi di «assistenza sociale di base» e di «risanamento degli ecosistemi terrestri» si aggirerebbe attorno ai 190 miliardi di dollari. Senza pronunciarci sul modo con cui la cifra è stata calcolata, possiamo valutarne l’entità confrontandola con il budget annuale per le spese militari nel mondo (1235 miliardi di dollari).
Qualcuno si accorgerà un giorno dell’avvenuta catastrofe silenziosa della democrazia, sostituita da una forma di governo senza nome. Democrazia che oggi rassomiglia a uno di quei paesi di certi racconti fantastici, i cui confini e le cui pianure si dissolvono all’avanzare di una nebbia indistinta: nacque con ostracismi, rotazioni di cariche tra i cittadini, educazione pubblica, estrazioni a sorte, regole severe per la rendicontazione; l’avrebbero dissolta privilegi di immunità, fissità nelle cariche, nomine a vita o quasi ereditarie, disinvestimenti dall’educazione pubblica.
Possibile che l’unica forma verbale con cui possiamo esprimere una ricerca comune sia il cum-petĕre? Se ciò accade, è perché il nostro linguaggio e il nostro orizzonte del fare, del poiein “sensato”, si è impoverito. Homo infatti, nella sua storia, ha già ideato strumenti e cornici per “immaginare insieme”, al di fuori della logica del “competere”. Si tratta di strumenti e cornici di cui è fin troppo facile dire che “non servono” a nulla. Perché è vero che non hanno effetti contabilizzabili e che abbisognano di lentezza.
A cosa serve, infatti, Eschilo? Nel senso prevalente che la domanda impone, a niente: anche se nel suo Prometeo incatenato ci raccontava quello di cui oggi ci stiamo accorgendo per altre vie, cioè che come figli di Prometeo, presbiopi e miopi, siamo incatenati da scelte e abitudini che, apparse profittevoli, si rivelano autodistruttive.
A cosa serve, più in generale, il teatro? A niente, se si pensa che a competere debba essere il singolo individuo o la singola azienda contro gli altri.
Suonerà inattuale ma è il caso di dirlo che, per quanto non servano, oggi del teatro, della letteratura, della poesia e della filosofia abbiamo più che mai bisogno. O meglio: di un modo di parlare, fare e godere del teatro, della letteratura, della poesia e della filosofia che eserciti e abitui a pensare insieme: condizione perché le rivoluzioni del futuro non cadano di nuovo in mano a incantatori e a partiti oppressivi, perché non affiorino su slogan studiati da agenzie pubblicitarie o su filosofie della storia.