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Ugo Morelli, Conflitto. Identità, interessi, culture

Meltemi - Roma, 2006

Recensione di Marco Aime


copertina«Conflitto» non fa rima con «guerra», eppure oggi sembra impossibile scindere i due termini al punto che sono, quasi inavvertitamente, diventati sinonimi l’uno dell’altro. Eppure, ci dice Ugo Morelli, il conflitto, inteso come incontro e scambio di idee diverse, è il sale della società umana. Non demonizziamo il conflitto, utilizziamolo, ci ammonisce l’autore di questo bel saggio intitolato, appunto Conflitto. Identità, interessi, culture, ma allo stesso tempo ci avverte di quanto non sia facile farlo, perchè mentre sembra abbondare quella guerra, non abbiamo una cultura del conflitto.
«L’arte della guerra si impara facilmente» scrive Morelli, «mentre la cooperazione va inventata, attraverso un’analisi del conflitto, delle condizioni di accesso a esso e della sua elaborazione. È un’invenzione difficile, faticosa, piena di incognite». Se da un lato i fondamentalisti di ogni sorta tendono a semplificare la realtà, riducendola a dicotomie opposte, necessariamente votate una alla distruzione dell’altra, dall’altro certi pacifisti sembrano anestetizzare le potenzialità costruttive di un conflitto, negandone i presupposti e abdicando alla possibilità di gestirlo.
Negli anni Cinquanta gli antropologi della scuola di Manchester diedero una svolta decisiva nell’analisi dei gruppi umani cosiddetti primitivi, sostituendo al paradigma dell’equilibrio, quello del processo continuo e del conflitto interno. Le società mantengono una loro coesione, non grazie a un insieme di forze la cui risultante è zero, ma sulla base di continui disequilibri ed equilibri, gestiti attraverso norme e regole create, che sono il vero motore dell’evoluzione di una qualsiasi comunità.
Una trentina d’anni prima Marcel Mauss sosteneva che il dono è un grande generatore di socialità, proprio perché crea squilibrio, perché non è mai gratuito e implica una relazione. Attenzione, ci ammoniva Mauss, se però il dono è asimmetrico, allora spezza la relazione, umilia, disgrega. Ecco la differenza tra conflitto e scontro, il primo è il frutto di uno squilibrio controllato, l’altro è il prodotto del venir meno delle regole.
La democrazia tanto osannata in questi tempi, al punto di divenire prodotto da esportazione forzata, al contrario di quanto pensano molti dei suoi ultras del momento, si basa proprio sul conflitto, sul riconoscimento della differenza e sulla capacità di negoziazione tra diversi. Il paradosso attuale è che i fautori della democrazia a ogni costo, fanno di essa una forma di fondamentalismo, ma ogni fondamentalismo è per forza di cose universalista, non può che ritenersi unico né tollerare alternative. In questo senso, esso nega l’essenza stessa della democrazia, che è invece confronto continuo, è discussione, come sostiene Gustavo Zagrebelsky: «è, per ricordare un'espressione socratica, filologia non misologia».. Perché questo confronto avvenga, una società veramente democratica deve essere aperta alla diversità, al dibattito con chi porta idee nuove. Deve mantenere e preservare anche al suo interno l’originalità, cioè la capacità di dare vita a un progetto di rinnovamento e per fare questo «la democrazia esige di essere potenzialmente “multi-identitaria».
Qui si inserisce la lezione di Morelli, che attraversando sapientemente discipline diverse come le scienze della mente, la sociologia, l’antropologia, ma anche lo studio dei processi evolutivi, ci porta a riflettere su quanto fertile possa essere il terreno del conflitto, ma anche di quanto sia difficile e faticoso il cammino per accettare il continuo confronto con il diverso. Soprattutto in tempi in cui, come dice Barbara Spinelli, «lo Zeitgeist, “lo spirito del tempo” esalta la “naturalezza” e non più l’artificio difficile e arzigogolato del vivere insieme civilmente».

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