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Gustavo Zagrebelsky, La legge e la sua giustizia

Il Mulino, Bologna 2009; pp. 419; euro 30.
“Responsabilità, conflitto e democrazia” recensione di Ugo Morelli.

copertinaOgnuno di noi ha sperimentato lo scarto, la differenza che spesso si sente tra una norma, una regola, una legge e il nostro personale senso di giustizia. Pur rispettando le leggi, le regole e le norme, possiamo constatare la differenza tra quanto prevedono e le nostre valutazioni personali su come vorremmo che andassero le cose. Siamo consapevoli del valore di un semaforo per garantire la circolazione e i turni ad un incrocio, rispettiamo le indicazioni di quel semaforo, ma in qualche caso o spesso vorremmo personalizzarne il funzionamento, come accade quando abbiamo fretta o quando nell’altra direzione non passa nessuno. Sappiamo che esistono dei criteri per riconoscere gli incentivi nel nostro luogo di lavoro, anche perché abbiamo concorso a definirli e li abbiamo approvati, ma abbiamo difficoltà ad ammettere che sia giusto il nostro trattamento rispetto a quello di un nostro collega. Riconosciamo il valore delle tasse per il funzionamento di una società democratica, le paghiamo regolarmente, ma avvertiamo uno scarto tra il nostro carico fiscale e quello di altri che ci sembra paghino meno di noi. Potremmo proseguire nel constatare come vi sia una “una doppia anima del diritto”, come la definisce Gustavo Zagrebelsky nel suo ultimo, importante, libro. Un’anima è propria della giustizia materiale e l’altra è propria della legge. Non si tratta di due anime una delle quali sarebbe da eliminare. Anzi. Le valutazioni individuali, secondo l’autore, non sono pre-giudizi da evitare o negare. Né da quelle valutazioni il giurista deve proteggersi. Si tratta invece di un conflitto, un vero e proprio conflitto, la cui buona elaborazione può tenere alta la tensione fecondante tra giustizia e legge. È da quel conflitto, costitutivo e continuo, che può emergere la responsabilità di connettere la legge alla cultura del tempo ed evitare una riduzione del diritto a legge e la legge a strumento di dominio. Così come il successo di un uomo politico non deriva solo dal modo in cui traduce la propria volontà e la propria visione del mondo in azione, ma significativamente dalla fortuna imponderabile e insondabile, come aveva ben intuito Machiavelli, alla stessa maniera il valore riconosciuto della legge e la sua efficacia dipendono dalla sua interdipendenza conflittuale e costante con la giustizia. La critica alla politica teologizzata che si ravvisa in autori come Machiavelli e Hobbes, è un riconoscimento della contingenza e del caso, perciò della fortuna, nelle forme di governo. Mettere al riparo dalle dinamiche del disordine sociale e della contingenza, in una parola dal conflitto, la forma di governo, vuol dire ristabilire un ordine che ha nell’obbedienza alla legge divina il suo principale riferimento. Sono questi i temi che affronta Carlo Galli nel suo recente, Contingenza e necessità nella ragione politica moderna, apparso da Laterza all’inizio del 2009. Le continue correzioni del disordine attraverso la buona gestione del conflitto, secondo Galli, corrispondono all’esercizio del buon governo e della giustizia umana. Scopo della politica non è uniformare la società ad un ordine preesistente ma crearne uno che sia in grado di elaborare e risolvere provvisoriamente i conflitti esistenti. Una posizione drammatica della società e della politica può portare di fronte ad eventi impossibili da governare e a situazioni antagonistiche. È solo la temperatura del conflitto accessibile e ben elaborato che può consentire di tenere alte le possibilità della democrazia. In questo senso la politica può essere anche “illusione”, avere a che fare cioè con un ordine che sembra accettabile ed efficace mentre è solo provvisorio e fragile. Nell’esperienza di Cicerone è possibile vedere all’opera la combinazione tra politica e diritto nelle diverse forme che può assumere la lotta per il potere, con i suoi dilemmi e le sue tragedie, come si evince dal libro appena pubblicato di E. Narducci, Cicerone. Le parole e la politica, da Laterza. Come ricorda Ezra Pound nei Cantos, la rivoluzione può avere luogo solo nella mente del popolo; è quella la via contro i tiranni. Zagrebelsky, che alla democrazia ha dedicato e dedica così tanto impegno, incluso l’attuale fondazione dell’associazione Libertà e Giustizia, e il recente manifesto Rompiamo il silenzio [www.libertaegiustizia.it], sostiene in modo netto nelle prime righe del suo libro: “Il diritto non è una linea, ma uno spessore; è un Giano bifronte”. Le due fronti di Giano indicano bene il fatto che “la nostra tradizione giuridica è la storia di un dualismo e di una tensione tra il diritto come sostanza, capace di assumere le forme più diverse, e il diritto come forma, libero a sua volta di assumere le sostanze più diverse. Il diritto come sostanza esiste quando se ne fa esperienza, il diritto come forma, quando ne è imposta l’ubbidienza. “Il diritto come sostanza si regge su forze sociali diffuse; il diritto come forma su poteri politici accentrati”. Leggendo l’incalzante ed elegante analisi di Zagrebelsky emerge e si afferma una domanda: dove ci siamo persi come popolo italiano? Dove abbiamo perduto il senso di responsabilità che solo alimenta la tensione con la forma istituita sollecitandola senza negarla? Dove abbiamo lasciato la consapevolezza che il modo di elaborare la costitutiva e irriducibile differenza fra soggetto e istituzione, fra giustizia e legge, può far emergere la via della democrazia o può sprigionare la convinzione che la validità del diritto indipendente dalla sua sostanza, la validità e l’uso strumentale delle regole, quali mero investimento formale della forza di chi vince, si rivela essere il vademecum del potere arbitrario, che da quel momento in poi sarà solo interessato a negare ogni conflitto e ad abbattere ogni limite alla propria onnipotenza. L’assenza di conflitti verrà di conseguenza indicata come un valore e un merito e confusa con la governabilità. In nessun modo si tratta, secondo Zagrebelsky, di risolvere la questione affermando la dimensione formale o quella sostanziale del diritto. Sono la tensione e il conflitto tra le due dimensioni che generano il riconoscimento del diritto come realtà dalla doppia natura, come tensione tra forza e aspettative di giustizia. La dinamica costante tra il diritto e la legge viene analizzata in profondità dall’autore, risalendo fino a Pindaro e alla questione del “Nòmos basileus”. Nelle vicende di fondazione di un ordine politico, forza e giustizia si presentano indistinguibili. “Nel kaos originario, dove non vige alcun limite per nessuno, non vi può essere giustizia, ma solo conflitto sulla giustizia”. La prospettiva della giustizia si apre solo quando una forza portatrice di propri criteri di bene o di male si impone sulle altre. La forza che si impone trova giustificazione non in se stessa, nella sua origine o nella sua giustizia, ma nel suo risultato, che è un risultato di fondazione. “Il nòmos le conferisce legittimità, cioè dignità di giustizia positiva, ma solo ex post. È “violenza giuridica”, nel senso che fonda gli stati e stabilisce la legge, cioè si oppone, per l’avvenire, alla violenza bruta. È violenza nemica della violenza”. L’ineluttabile processo di violazione può essere perciò distruttivo o regolato dalle dinamiche conflittuali e dalla loro efficace elaborazione. Sarà dall’intreccio di forza e giustizia, secondo diversi livelli di equilibrio dinamici e conflittuali, che emergerà un ordine democratico. L’itinerario di Zagrebelsky ha un fascino che in una recensione si può solo marginalmente far risuonare. Le figure più smaglianti del percorso, tra mito e storia, che porta all’emancipazione verso la democrazia si conclude, nella prima parte del libro, con il magistrale capitolo intitolato, La costituzione e la legge. In sintesi, scrive l’autore, la Costituzione è forma della convivenza, la legge è forma della forza. La Costituzione è norma che aspira a durare, la legge è norma fuggevole che dipende dalle circostanze; la Costituzione è norma nella quale si esprime l’autonomia delle componenti sociali, di tutte le componenti sociali, mentre la legge è norma che esprime la prevalenza di una parte delle componenti sociali sulle altre. “Dovrebbe essere chiaro a questo punto”, scrive l’autore a pagina 157, “che trattare la Costituzione come una legge, per quanto le si riconosca una sua particolarità di natura formale, significa trascurarne o travisarne i caratteri più profondi”. Tutto il resto del libro, nella seconda e nella terza parte si snoda nella dimostrazione dell’ipotesi che ne costituisce la spina dorsale. Vengono perciò messi in evidenza la natura e i limiti dell’uso giudiziario della Costituzione e viene stabilita una tensione tra Costituzione e giustizia con riguardo particolare al rapporto tra idea perenne e condizioni contingenti. Alla fine del volume l’autore pone la questione della ricerca per la fondazione di un costituzionalismo globale come progetto di correzione delle sovranità diseguali e, ancora una volta, appare evidente come la via della democrazia, incerta, fragile e conflittuale, è quella che può consentirci di creare le condizioni per cercare, noi, di abitare il conflitto costitutivo fra la legge e la sua giustizia, fra la forma e la sostanza. Da come sapremo farlo dipenderà la qualità della vita politica e sociale che ci daremo.


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