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J. T. Álvarez, Il potere diluito. Chi governa la società di massa

Rubbettino, Soveria Mannelli 2007
Recensione di Luca Mori.

copertinaC’è un’«evoluzione secolare» della democrazia e il “potere diluito” ne costituisce la forma contemporanea (p. 269), che può essere compresa solo ripercorrendo la storia della cosiddetta società di massa. A sua volta, questa storia è legata a quella dei media e del loro ruolo quali vettori del discorso politico e dell’esercizio di un potere pubblico. Il libro di Álvarez imposta un tentativo di comprendere i dispositivi del potere contemporanei a partire da uno sguardo retrospettivo su questo complesso scenario di rapporti coevolutivi tra media e democrazia.
Un momento cruciale risulta essere il passaggio tra anni Settanta e Ottanta: la deregulation e i processi di privatizzazione che ebbero luogo tra il 1979 e il 1981 – fatti come il via libera a emittenti televisive e radio private – si accompagnarono alla comparsa di un «nuovo tipo di agenzie di professionisti, chiamati indistintamente agenzie di relazioni pubbliche, di comunicazione, consulenti di media, consulenti di comunicazione, ecc.» (p. 61). Nate negli Stati Uniti e ben presto trapiantate in Europa, le grandi agenzie di comunicazione (relazioni pubbliche, propaganda, pubblicità ecc.) intervengono nella ridefinizione della contesa politica mentre gli Stati lentamente abbandonano i loro monopoli e indietreggiano dal controllo dell’elettricità, del petrolio, delle ferrovie, delle autostrade, delle linee aeree, della telefonia, della televisione e dell’informazione, e così via. Mentre le televisioni diventano punti vendita situati in ogni casa, la retorica del discorso e della competizione politica si sposta dai vecchi “antagonismi” che opponevano destra e sinistra (con la mediazione del centro) agli “eventi” d’impatto, a storie (gossip, retroscena, servizi sensazionalistici su casi circoscritti). Anche l’opposizione destra/sinistra e più in generale l’esplicitazione di opzioni ideologiche alternative, quando ricompare, sembra essere funzionale all’interpretazione o alla narrazione più colorata di eventi e storie.
L’autore, considerando lo stadio evolutivo raggiunto e il possibile seguito, arriva a scrivere che lo Stato liberale e lo Stato interventista e sociale – presi come modelli idealtipici – sono comunque arrivati a «traguardi collettivi» a cui «difficilmente… le nuove società rinunceranno»: più precisamente, cita giustizia istruzione e sanità «come diritti inalienabili di tutti i cittadini» (p. 269). Ci sono molte ragioni per avanzare riserve su questa profezia così apparentemente rasserenante. Lo stesso Álvarez prosegue con considerazioni che contengono motivi per revocare l’ipotesi di diritti “inalienabili” definitivamente conseguiti sui temi della giustizia, dell’istruzione e della sanità. La crisi di fiducia che ha investito parallelamente il liberalismo e la socialdemocrazia ha infatti condotto a «una specie di non-Stato» (p. 270) in cui la dimensione “-spazzatura” sembra averla vinta (comunicazione-spazzatura, TV-spazzatura, cultura-spazzatura degli imbonitori reclutati nei palinsesti televisivi). Per quanto riguarda il discorso politico, poi, che dovrebbe essere lo spazio in cui si confligge sull’inesistente immaginato a partire dal conflitto sull’esistente, la tanto sbandierata semplificazione del linguaggio (su cui si sono costruite campagne efficaci, da parte di chi si è presentato come l’anti-politichese) sembra essere l’ulteriore esito della sapiente regia degli spin doctor, i quali teorizzano e praticano l’efficacia del parlare televisivo, ripetitivo e visivo, imperniato su semplificazioni, uso di stereotipi ed evocazione di paure.
Tutte quelle citate sono facce del diluirsi del potere di cui Álvarez scrive, coniando il concetto di “potere diluito” e appaiandolo a quello di “post-consenso” (di cui s’intuiscono, da quanto detto, alcune coordinate fondamentali). A chi s’interroghi sulle vie d’uscita, il suggerimento che viene dal libro è di concentrarsi sull’educazione e su progetti che richiedono “tempo lungo”.

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