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Miguel Benasayag e Angelique del Rey, Elogio del conflitto

Feltrinelli, 2008
Recensione di Antonio Castagna

copertinaMiguel Benasayag è un filosofo e psicanalista argentino che vive in Francia da molti anni. In Prima di arrivare in Europa era stato anche guerrigliero dell'Esercito Rivoluzionario del Popolo (ERP), impegnato nella lotta armata contro la dittatura del generale Videla.
Elogio del conflitto ha fondamentalmente due pregi, la radicalità dell'approccio e la capacità di connettere in un solo discorso la dimensione individuale interna, quella relazionale, la dimensione sociale, l'economia e la politica.
Nella prima parte il libro tratteggia una sorta di paesaggio dei conflitti. La tesi è che nelle liberal-democrazie gli individui vivano in uno stato di assenza del desiderio. Benasayag parla di individuo formattato, i cui bisogni sono trasparenti, in quanto ridotti semplicemente a bisogni da soddisfare attraverso aspirazioni egoistiche traducibili in beni di consumo. È negata l'opacità dei corpi, la loro contraddittorietà. Ogni qual volta le domande di qualcuno non abbiano la trasparenza richiesta allora gli si intima di integrarsi, che per l'autore significa disintegrarsi per riapparire in formati integrabili nella società degli “individui senza qualità”. È un modello di vita, afferma l'autore, “colonizzato dalla morte”, cioè chiuso al desiderio, che invece è opaco e contraddittorio. A mantenere formattati gli individui concorrono una serie di saperi, afferma Benasayag rivelando il suo approccio foucaltiano. Sono i saperi dell'economia e della comunicazione. Il modello è l'esito del panottico di Bentham, che prevedeva che un singolo controllore potesse controllare da una torre una massa di lavoratori disciplinati. Ora il modello è stato introiettato come norma, al punto che a mantenere la disciplina non è più necessaria la presenza fisica del controllore, dato che il consenso è ormai acquisito. Ma anche la psicanalisi, secondo l'autore, sollecitando la ricerca di un vero io, soggiacente alle contraddizioni, si è allineata al modello dominante. Ma la “stessità”, secondo l'autore “non ha a che fare con un'essenza”, come se in potenza, dentro ognuno di noi, giacesse qualcosa di autentico da rivelare, “ma con una concatenata e diveniente molteplicità” (p. 45). La ricerca esasperata dell'autentico, dello stesso (l'identità), porta fatalmente a innamorarsi di una propria immagine stereotipata e al narcisismo.

La ricerca di un'essenza soggiacente condiziona anche il modo di condurre le guerre. Benasayag sostiene infatti che la guerra è diventata una sorta di strumento per un fine, il perseguimento della pace. Anche l'umanesimo contribuisce a questo tipo di esiti, ponendo la pace e la guerra come dicotomie, benché privilegi senz'altro la pace alla guerra, rende possibili esiti paradossali. Infatti perseguire la pace può anche significare eliminare ciò che la impedisce. Da qui i genocidi, che cominciano con quello dei turchi a danno degli armeni, proseguono con l'eliminazione tentata dai nazisti di ebrei, rom e omosessuali, fino alle guerre yugoslave degli anni '90 e il genocidio in Cambogia e Rwanda.
La guerra regolata invece, si presenterebbe come necessità, non come preordinata a un fine: per esempio la guerra di resistenza. Altrimenti è uno scontro tra due schieramenti uno dei quali incarna l'umanità, l'altro la disumanità. “La guerra totale nasce da società incapaci di pensare il conflitto nella sua molteplicità” (p. 55).
È questa una delle parti del libro più problematiche. La distinzione tra guerra regolata e guerra totale infatti lascia pensare che non esista una via per superare la guerra come sistema di regolazione dei conflitti. Tuttavia ha il merito di affrontare in modo non moralistico la questione e di tenere in primo piano il vero tema che resta la capacità di individui, gruppi e società di elaborare i conflitti.

La guerra totale dunque sarebbe il frutto di una società incapace di pensare il conflitto, che è quella “dimensione d'essere che consente di pensare in termini di molteplicità anziché di <<stessità>> di funzione piuttosto che di essenza” (p. 81). Ragionare e agire avendo presente il fine e non il processo, significa perdere di vista il logos eracliteo, cioè ciò che connette diversi fenomeni e diverse cause. L'autore narra a proposito l'episodio degli uccelli migratori che in Cina mangiavano parte del raccolto. Mao Tze Dong, nel tentativo di evitare le carestie attivò i contadini cinesi che in occasione del raccolto successivo si organizzarono per impedire agli uccelli di posarsi. Quando questi, esausti, cadevano a terra venivano finiti a colpi di bastone. L'anno seguente nessun uccello mangiò il raccolto, in compenso gli insetti e i parassiti, non più predati dagli uccelli, si erano moltiplicati, dando vita alla peggiore delle carestie mai viste in Cina.

Il punto è che fenomeni complessi non richiedono soluzioni orientate a sradicarli, ma “complesse strategie di convivenza” (p. 89). Come il caso dei flussi migratori, che invece in Europa e in occidente in generale hanno acceso negli ultimi decenni un dibattito su come eliminarli, come se questo fosse possibile e auspicabile.
Comprendere attraverso ciò che unisce, ciò che è comune significa “assumere come inevitabile un certo grado di incomprensione” (p. 114). La difficoltà sta nel fatto che ciò che è comune non è dato, ma va prodotto. Produrlo implica una ricerca, la possibilità che differenze irriducibili si incontrino. Per questo la risultante di un conflitto non è in nessun caso la sua soluzione, è piuttosto ciò che consente di assumerlo e svilupparlo, come una dialettica senza sintesi.

Agire dunque, che è oggetto della terza parte del libro, significa essenzialmente “mettere tra parentesi le soluzioni” rinunciando a pensare a soluzioni definitive. Per farlo è necessario superare un certo umanesimo che negando il conflitto apre la strada alla riduzione dei conflitti in conflitti di interesse. Da qui la nascita di movimenti e rivendicazioni trasparenti al potere utilitarista. Sono le proteste degli esclusi, dei “senza”: sans papier, senza casa, senza terra, le cui domande vengono soddisfatte nel momento in cui ottengono ciò di cui mancano. Una simile riduzione non permette alla potenza del desiderio (Deleuze) di esprimere tutte le sue potenzialità. Questo non permette di aprire una breccia nel discorso utilitarista.
Quest'ultima parte del discorso è probabilmente quella più difficile e rischia di essere ideologica. Una facile obiezione potrebbe essere che è meglio avere una casa che non averla. Si tratterebbe di una obiezione tutta interna al paradigma utilitarista ed economicista, saremmo ancora una volta nella negazione del conflitto e della sua irriducibilità. Nello stesso tempo però non si comprende quale linguaggio possa essere più potente di un linguaggio che traduce in oggetti e bisogni tutte le domande e la potenza che il legame sociale produce.
Il testo ha la sua parte migliore dove emerge come l'individuo formattato non sia l'altro, ma sia ognuno di noi, almeno in una certa misura. Lì la radicalità dell'autore è persino disturbante, ma superato lo scoglio il testo permette di aprire autentici squarci di comprensione. Diversi passaggi sono problematici e discutibili, ma questo è un merito del libro la cui lettura non può lasciare indifferenti. Interessante anche il fatto che l'autore dialoghi con le elaborazioni di autori come Spinoza, Foucault e Deleuze.


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