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Conflitti di sguardi e plasticità di culture

Recensione di Ugo Morelli


copertinaRecensione multipla:


M. Aime, Timbuctu, Bollati Boringhieri, Torino 2008; pagg. 193.
M. Aime, Il primo libro di antropologia, Einaudi, Torino 2008; pagg. 286.

Non sarà che le civiltà di distinguono per come riescono a elaborare i propri miti? Subendoli, alcune, fino ad imprigionarsene; guardandoli dal di fuori, altre, fino a considerarli con ironia e rendendoli, così, fruttuosi. Il mito dell’”autonomia” è un esempio di particolare utilità per svolgere qualche considerazione in proposito. Lo trattiamo in primo luogo come intoccabile e con la predominante paura di perdita, o come l’inizio di possibilità ancora inesplorate? Scrive Marco Aime, uno dei più importanti antropologi contemporanei che mette in scena una prosa tra il poetico e il clinico, in un libro appena uscito su Timbuctu, da Bollati Boringhieri: “mi accorgo che, se non fosse stato per il mito costruito su Timbuctu, forse non sarei riuscito a scrivere tutto questo”. Il conflitto col mito può, quindi, essere creativo. Come sempre nelle cose umane si tratta di una scelta e una buona domanda riguarda proprio le ragioni per cui si riesce o non si riesce a fare quella scelta, o si riesce a farla solo parzialmente. Tra che cosa si sceglie? Tra il consueto e rassicurante procedere della forza dell’abitudine e il perturbante e a volte abbagliante sguardo sull’inedito, su ciò che non si era mai visto. Si può guardare oltre senza avere paura? No, è evidente che no. Allora appare chiaro che ci possiamo situare fra quelli che cercano di elaborare la paura sporgendosi sul nuovo e quelli che ubbidiscono alla paura rassicurandosi nel consueto. Che oggi prevalga nettacopertinamente il secondo atteggiamento è sotto gli occhi di tutti. Non solo. Ma l’affermazione del consueto è preparata, accompagnata e giustificata da un costante richiamo al mito, prendendo una parte per il tutto e posizionando la cultura solo alle nostre spalle. In questo modo intendiamo per cultura e per fondamenti dell’autonomia solo quello che è dietro di noi, quello che abbiamo più volte detto e ridetto fino a consumarlo di senso. Ingaggiare un confronto, un conflitto appunto, con il mito, consegnandogli un ruolo di sponda, una funzione di rimbalzo della nostra disposizione a cercare, può rendere fertile l’esplorazione e permettere di vedere che la cultura non è solo dietro, ma davanti a noi. Il meglio di essa sta forse proprio nell’incessante processo e lavorio della sua costruzione. Cavalcare la monotona consuetudine del già visto, usare forme espressive appiattite sull’esistente, mettere in scena sempre i soliti simboli, sono tutte operazioni che confermano il già noto e rassicurano. Il mito diviene così un simulacro e come è noto rischia di degradare in impostura. La vitalità del mito emerge, invece, a fronte di una sua continua sollecitazione. L’esperienza di Arte Sella in Trentino mostra come si possano sollecitare i miti con un tenzone con essi, che prepara lo sprigionarsi di forme e creazioni capaci di collocare un luogo nel mondo, da dove ogni luogo andrebbe guardato per avere un po’ meno paura e creare un po’ più di futuro. Non esiste il “lontano” ma solo il “vicino” nella nostra vita di oggi, e forse molto spesso è ciò che abbiamo molto vicino ad essere per noi lontano, come può accadere con un dirimpettaio di pianerottolo in un condominio o con una persona che lavora nella nostra stessa istituzione e che conosciamo solo formalmente. Non esiste il confine ma ogni confine è diventato un margine e non vi sono più argini che possano contenere i movimenti di noi tutti sul pianeta, sia che ci muoviamo per scelta che per costrizione. Ogni argine per quanto imposto e resistente si vede sempre più impegnato ad ampliare i propri margini se non vuole essere travolto. L‘immagine dei muri che vengono costruiti richiama immediatamente il momento in cui verranno demoliti. Nella nuova semiosi contemporanea non si riesce più a creare un muro se non come premessa per il suo crollo e chi ne costruisce uno sa che sta invitando alla sua demolizione. Non è più possibile immaginare di creare nuovi mercati vendendo penne in eccedenza a qualcuno e voler poi decidere che uso ne farà e, soprattutto, che cosa scriverà con quelle penne. Potrebbe scrivere cose a noi sgradite o contro di noi ed è probabile che lo farà. Timbuctu di Marco Aime documenta questi spiazzamenti, questi estraniamenti e, come ha sostenuto Marc Augè, mette in evidenza che la cultura è un legno fresco: nel costruirci un mobile non puoi sapere quali forme prenderà. Parlando di cultura, ci riferiamo a qualcosa di molto simile alla piazza sabbiosa di quella città del sogno dove l’immensità del Sahara si confonde con la più antica moschea d’Africa; o della “sabbia anarchica delle dune” che si confonde “con la terra impastata e lavorata dagli uomini”. Proprio questa visione della cultura connette Timbuctu all’altro libro appena pubblicato di Marco Aime: Il primo libro di antropologia, appunto. La plasticità ricorsiva dello sguardo dell’antropologo con la realtà osservata crea, forse, quella “cosa” che poi noi tutti chiamiamo cultura. In questo libro intenso e costruito con un crescendo dalla narrazione alla presentazione più sistematica, Aime fa compiere al lettore un viaggio accompagnato, ponendosi nella posizione dell’accompagnatore discreto che interviene solo quando lo inviti ad aiutarti e fa in modo che ognuno si costruisca, col suo aiuto, la propria “antropologia”. Questo libro è un “racconto dal campo” (Tales of the Field, aveva chiamato un suo lavoro di metodo un importante antropologo come Jan van Maanen qualche anno fa), e il campo in questo caso non è un luogo fisico da esplorare, ma proprio il “terreno” dell’antropologia. La citazione di J. L. Amselle sull’arte (“E’ l’arte a creare le opere d’arte, non il contrario”, p. 247), ci porta dritto dentro l’inestricabile circuito tra chi osserva e chi è osservato a riconoscere che nella relazione ci inventiamo, mentre inventiamo le nostre stesse invenzioni. Il lettore si conceda la gioia di farsi portare. Aime è un antropologo con straordinarie doti “cliniche”. Si sa chinare su chi ascolta e sa far parlare il mondo interno di ognuno mentre cerca i propri significati. La sua è la postura del cantore orale che scrive per pura evenienza epocale ma molto più agevolmente si dispone rilassato e rilassante a sedute interminabili e avvolgenti di lunghe narrazioni, procedendo per associazioni intervallate da aneddoti e succedanee ramificazioni, alla fine delle quali incredibilmente ci si ritrova, avendo rocambolescamente toccato lidi e luoghi, la cui bellezza, non si capirà mai se è prevalentemente tale nella realtà o nella narrazione. Il filo conduttore è il continuo, dolce conflitto, fra lo sguardo e la realtà: quell’infinita compenetrazione verso la quale un’antropologia positivista si era ostinatamente opposta e a cui Aime si abbandona come su un’amaca mossa da un vento leggero ma capace di far sperimentare ogni sorta di adattamento e di concedere molteplici punti di vista. Confesso uno spiazzamento: nel capitolo dodicesimo, dedicato al creare, il titolo di un paragrafo è Arti pesanti, arti leggere. L’occhio si era fermato solo sulla prima parte del titolo (Arti pesanti), influenzato dal contenuto teso ad evidenziare come lo sguardo occidentale abbia indotto a definire “arte” una molteplicità di artefatti che storie e tradizioni diverse avevano generato per un’estrema varietà di motivi. “Pesante” è stato ed è effettivamente e, per tanti aspetti, definitivamente, lo sguardo e il tallone che abbiamo appoggiato sui mondi che abbiamo incontrato, come occidentali europei. In tutto il libro di Aime si sente lo sforzo che una disciplina come l’antropologia sta facendo per scrollarsi di dosso la sua stessa identità originaria e quanto di buono essa sta esprimendo è forse proprio frutto di questa difficile elaborazione. Da “La valigetta dell’antropologo”, il primo capitolo, fino a “Comparare, tradurre, scrivere”, il quattordicesimo, il libro riesce ad essere un “primo libro” di antropologia. Curiosa considerazione: si tratta del “primo” libro, come in prima elementare abbiamo avuto il nostro primo libro di lettura, o del “primo libro” nella classifica dei libri per fare un bilancio attuale di una disciplina a cui tanto dobbiamo nel tentativo senza fine di capire noi stessi attraverso gli occhi degli altri? Uno dei premi derivanti dalla lettura del libro è anche la risposta che ognuno darà a questa domanda.

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