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Ascanio Celestini, Parole sante, storie di autorganizzazione e precarietà dentro il più grande call center d’Italia

Fandango, documentario

Recensione di Antonio Castagna


copertina Il Nel documentario a parlare sono alcuni esponenti del Collettivo Atesia, dove lavorano circa 4000 persone. Raccontano a Celestini come lavorassero a cottimo (fino a 85 centesimi a telefonata), inquadrati da contratti a progetto ma in realtà sottoposti a regime di lavoro subordinato, e di come nel 2005 abbiano reagito spontaneamente con un’assemblea, la costituzione del collettivo e una denuncia in massa all’Ispettorato delle condizioni di lavoro. La denuncia e l’autorganizzazione hanno portato a una sentenza favorevole ai lavoratori e nell’estate del 2007 a un accordo firmato dai sindacati.
L’interesse delle storie raccolte da Celestini è certamente nell’evidente situazione di disagio a cui la condizione di precari sottopone i lavoratori, ma ancora di più, nel racconto di come si possa imparare ad agire collettivamente e a confliggere quando tutto intorno invita all’individualismo e alla remissività. Maurizio, uno degli intervistati, ad esempio, racconta di come organizzando il primo sciopero uno dei problemi fu decidere a che ora farlo. Per una generazione che non ha avuto accanto a sé esempi, che non gode dell’esperienza di chi è abituato a fare sindacato, può diventare un problema, ma anche l’occasione di una scoperta. Per esempio che passare 8 ore insieme fuori dalla sede di lavoro può essere talmente piacevole che la sera va a finire arrostendo salsicce e bevendo vino.
Agire insieme e confliggere vuol dire imparare un’arte. Dopo l’assemblea racconta ancora Maurizio, si decise che da quel momento in avanti nessuno avrebbe parlato solo a nome suo. Poi si decise che per agire bisogna costruire bene i passaggi precedenti: sapere, far sapere, saper fare e fare, fu così che nacque il giornalino interno, pieno di disegni e ironia, ma anche di informazioni su quello che accadeva in Atesia, nel mondo del precariato e nella legislazione. Infine bisogna saper sfruttare le occasioni, come quando la Direzione di Atesia provò a mettere a tacere il collettivo licenziandone i componenti per interruzione di servizio dopo un’assemblea. Fu quello l’errore fatale. Infatti erano tutti inquadrati con contratti a progetto che non richiedono al lavoratore l’obbligo della presenza. Licenziandoli per interruzione di servizio la Direzione riconosceva implicitamente che si trattava di lavoro subordinato. Da quell’episodio nacque la denuncia all’Ispettorato del lavoro.
Le storie raccolte mettono in evidenza un altro elemento importante, la distanza della politica e del sindacato dal precariato. L’accordo raggiunto nel 2007, con la mediazione del governo di centro-sinistra, imponeva infatti all’azienda l’assunzione a tempo indeterminato dei lavoratori, ma chiedeva agli stessi di firmare una liberatoria che esentasse l’azienda dal pagamento dei contributi pregressi e non pagati. In questa liberatoria si affermava che in effetti in precedenza avevano tutti lavorato a progetto e che Atesia non aveva violato alcuna legge. L’accordo venne ratificato attraverso un referendum nazionale. I lavoratori di Atesia però si sono opposti in massa a questa scelta di mediazione.
Gli intervistati esprimono allo stesso tempo radicalità nella domanda di giustizia e un sorriso disarmante quando raccontano il grottesco dei comportamenti di capi e dirigenti dell’azienda. Racconti e sorrisi che rivelano stupore di fronte a una situazione che solo vista da molto lontano può sembrare accettabile. È forte il contrasto con i volti e le parole dei sindacalisti e della Sottosegretario Rosa Rinaldi che sembrano navigare lontani, in logiche tutte istituzionali e difensive.
Dice uno degli intervistati che la sinistra dovrebbe essere più ignorante. Cioè stare nei luoghi, nei quartieri, essere punto di riferimento, per aiutare gli altri a riscattarsi dall’ignoranza, mica per lasciarceli. I lavoratori dell’Atesia una lezione però l’hanno data, dall’ignoranza si sono riscattati da soli. È un esempio di come in modo non violento si può costruire sapere e organizzazione. Vale la pena farci un pensiero.
Da un punto di vista formale si tratta di otto interviste a esponenti del collettivo, una passeggiata in compagnia di Salvatore e Cecilia che si sono conosciuti in Atesia e ora sono sposati, dell’intervista a due sindacalisti della CGIL, alla Sottosegretario Rosa Rinaldi, di alcune immagini di ambiente. Una struttura molto semplice, efficace perché sono efficaci i racconti e i volti. Le interviste sono realizzate nella sede dove il collettivo si riunisce, due sedie e un ombrello poggiato accanto, pareti bianche. Niente di patinato. Celestini completa il racconto con una cornice metaforica, il racconto dell’uomo che osserva il rubinetto del lavandino che perde. Teme che possa allagare la casa, facendo crollare il palazzo. Si fa delle domande, chiede consiglio a un uomo di destra, a quelli di sinistra, il moderato, e il radicale. Ma l’uomo è stanco di preoccuparsi e il rubinetto continua a perdere, fino a che le gocce diventano tante e l’acqua pesante, allora diventa impossibile fare finta di niente.
Il documentario in questo periodo sta girando in alcuni cinema, a Torino e a Roma, sul sito www.fandango.it sono segnalati gli eventuali aggiornamenti.


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