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La fidanzata automatica: un paragone infelice

Recensione di Luca Mori


copertina Nel suo ultimo libro, Maurizio Ferraris tratteggia una teoria “normalista” dell’opera d’arte, che viene paragonata (nei termini che vedremo) ad una Fidanzata Automatica. In sostanza, il “normalismo” è espresso in sei tesi (pp. 20-21): «l’arte è la classe delle opere»; le opere sono «primariamente oggetti fisici», sono «oggetti sociali», «provocano accidentalmente conoscenza», «provocano necessariamente sentimenti», e «sono cose che fingono di essere persone». L’ultimo punto è quello decisivo per comprendere il paragone della fidanzata automatica: da un lato, le opere d’arte «suscitano sentimenti, esattamente come fanno le persone quando le consideriamo come tali e non come semplici funzioni»; dall’altro lato, «diversamente dalle persone, non pretendono né offrono reciprocità di sorta» (p. 196).
Vediamo come (1) il paragone della fidanzata automatica è infelice, e non dice nulla su cosa distingue le opere d’arte da altri “manufatti” o sensibilia; (2) la teoria “normalista” non tiene conto della complessità dell’esperienza estetica e dell’ambiguità che la connota.

PUNTO 1. La metafora della Fidanzata automatica si presta a diverse letture. La più banale è quella per cui un’opera d’arte, in quanto opera, non riconosce i sentimenti del fruitore e non prova a sua volta sentimenti di sorta. A pagina 199 leggiamo: «alcuni sentimenti richiedono un riconoscimento da parte di altre persone, che è ciò che non possiamo avere né dalle opere né dalla Fidanzata Automatica». Cosa non possiamo avere? Il riconoscimento. Ora, se il paragone vuol dire questo, cioè che le opere d’arte non possono “ricambiare” i nostri sentimenti, ma li suscitano “come se fossero persone”, l’immagine della Fidanzata Automatica non veicola così tanta forza euristica, da giustificare l’enfasi con cui la si riferisce all’arte.
Chiediamoci anzitutto: solo le opere d’arte suscitano sentimenti come se fossero persone, senza però ricambiare? Se la risposta è negativa, il paragone della Fidanzata Automatica non dice nulla di “specifico” rispetto all’opera d’arte. Formuliamo la domanda in modo ancora più stringente: solo l’opera d’arte suscita sentimenti “da riconoscimento”? e intendiamo con l’espressione “sentimenti da riconoscimento” quei sentimenti che richiederebbero, per darsi, un riconoscimento reciproco tra soggetti, come l’amore, il desiderio, l’affetto, etc.
La risposta è che non solo le opere d’arte suscitano sentimenti “come se fossero persone”. Un esempio: molti pubblicitari lavorano a partire dal presupposto che «l’oggetto di consumo può essere assimilato a un oggetto di desiderio attraverso un vero e proprio processo di personificazione» (M. Bénilde, La pubblicità che fa uso delle neuroscienze, in Le Monde diplomatique/il manifesto, novembre 2007, p. 3). Uno psichiatra di Ulm ha notato che quando alcuni suoi pazienti «guardavano le automobili, questo gli ricordava i volti, i fari assomigliavano un po’ a degli occhi» (ibidem). I pubblicitari generalizzano questa osservazione e la riferiscono a tutti i destinatari del messaggio pubblicitario: gli oggetti in vendita e le loro immagini possono essere “personificati”, possono pretendere “fiducia/fedeltà”, “amore”, “interesse”, “cura”, “simpatia”, etc. (non entriamo nel merito della discussione sull’“autenticità” di questi sentimenti riferiti a sensibilia “non soggetti”). Tra parentesi: chi si entusiasma per il neuromarketing ha spesso in mente un uomo automatico e fa di tutto per procurare ai propri clienti delle Fidanzata Automatiche: ma, appunto, il presupposto è che l’uomo sia automatico, che sia sufficiente attivare la porzione giusta della corteccia per farlo invaghire di oggetti personificati. “Fidanzata automatica” nel senso di Ferraris può essere l’immagine di una persona vista sullo schermo della televisione o sulla pagina di un giornale: può “suscitare sentimenti” (attrazione, desiderio, rabbia,…) come se fosse una persona, senza però poter dare riconoscimento (in quanto quella che vediamo è una mera immagine e non la persona in questione, che non vedremo forse mai direttamente). Lo stesso ragionamento vale per gli orsetti di peluche e per la coperta di Linus, per i feticci e per i cimeli, per gli oggetti “con un valore sentimentale”, per gli animali e per i più improbabili personaggi dei mondi virtuali, anche meno evoluti di Second Life: suscitano sentimenti “come se fossero persone”, senza dare la reciprocità che danno le persone. In questi termini, però, l’immagine della Fidanzata Automatica non dice nulla di specifico riguardo all’arte. Anzi, dire che Fidanzata Automatica=opera d’arte (cioè, prendere sul serio il valore euristico del paragone) può avallare l’idea che, in qualche modo, in quanto l’uomo riesce “personificare” gli oggetti, in condizioni opportune tutto potrebbe diventare Fidanzata Automatica=opera d’arte. Ciò che allo stesso Ferraris non parrebbe condivisibile.
C’è però di più. Il paragone travisa e nasconde altre caratteristiche dell’esperienza estetica:
(a) l'opera d'arte suscita (chiamiamoli così) “sentimenti da riconoscimento”. Posso provare "simpatia" o "rabbia" nei confronti di un personaggio di un romanzo o di una rappresentazione teatrale? Direi che si può, “in modo ambiguo”, fintantoché l'opera mi trascina nella dimensione dell’illusione estetica. Si può fino all’illusione perfetta di cui scriveva Stendhal. La Gioconda non mi guarda (non ha coscienza, non ha stati intenzionali, per dirla con Ferraris), eppure “mi sento guardato, visto... interpellato, etc.”. Il senso comune dell’uomo medio, che diventa criterio normativo nel normalismo di Ferraris, mi dice che la Gioconda o la Pietà di Michelangelo, il Don Chisciotte o i Canti di Leopardi, la lettura dell’Enrico V Shakespeare o la visione della relativa rappresentazione teatrale, suscitano sentimenti diversi dal manifesto dell’ultima ammiraglia di una casa automobilistica, o dall’immagine di una velina su una rivista patinata. Eppure, sono tutte egualmente Fidanzate Automatiche? Tutto sullo stesso piano della “normalità”? Dire a questo punto che “la Gioconda finge di essere una persona” è un’arguzia, una trovata che può andar bene per impressionare l’uditorio di una conferenza.
(b) l'opera d’arte suscita “sentimenti da riconoscimento” che risultano “particolari” probabilmente perché è, per così dire, la consegna di un riconoscimento già avvenuto. Posso sentirmi riconosciuto dall’autore – entrare “in risonanza” con l’espressione del sentire dell’autore – e posso “riconoscermi” e “sdoppiarmi” nell’esperienza estetica, avere il sentimento della mia ambiguità (uno stare e non stare dentro, nell’illusione; un credere e non credere; un sentire “come se”). Sarei tentato di dire che l’esperienza estetica (o l’opera d'arte) si caratterizza perché c’è una “tensione rinviante” (direbbe Ugo Morelli), che si è tradotta in qualcosa di (parzialmente) accessibile all’aisthesis, e questa aisthesis a sua volta deborda, per così dire, costringe il “fruitore” a sporgersi oltre l’aisthesis in una “tensione da riconoscimento”. L’opera d’arte resta un sensibile, ma sui generis: un sensibile che attiva una tensione rinviante.
(3) che l’autoelevazione semantica generi nell’uomo tutta questa capacità di stare nell’illusione, di essere ambiguo, di sporgersi dall’aisthesis, è forse chiaro nel modo più evidente (per gli estremi a cui si arriva) nella religione, e nelle implicazioni che l’arte religiosa può avere. Qui davvero, colui che prega davanti a un’immagine sacra fa un salto ulteriore: può pretendere e credere fermamente che dietro quell’immagine ci sia qualcuno che lo riconosce. E proprio per questo, perché l'uomo non è automatico come vuole Ferraris, ma ambiguo fino all’Unheimlich, ci sono state tra l’altro le contese iconoclastiche: l’immagine è davvero qualcosa che riconosce, un veicolo per comunicare con il divino, l’avatar oppure no? Non interessa qui la risposta, ma il fatto che si ponga la domanda: cioè, l’esperienza estetica è una caratteristica evolutivamente emersa in quell’animale che dietro un’immagine sacra o un pezzo di stoffa si celino un’intenzione o uno sguardo.
(4) Nella sua idea che l’opera d’arte sia un oggetto non troppo grande né troppo piccolo, etc., Ferraris non tiene conto della rappresentazione teatrale. Questo invece è interessante: si tratta di arte, oppure no? C’è esperienza estetica, oppure no? Se sì, allora l’ontologia normalista vacilla, poiché il riconoscimento attore-spettatore durante la rappresentazione (che ha il carattere dell’evento più che dell’oggetto) è cosa ben più complessa di quella che il normalismo di Ferraris consentirebbe di pensare.

PUNTO 2. Qualche aggiunta sul “normalismo” normativo. In un certo senso, tutto è ordinario, come “tutto è naturale” e fa parte della natura: anche l’evento insolito/irregolare come il fulmine o l’uragano o lo tsunami – dietro il quale ancora in tempi recenti alcuni hanno visto un’intenzione – fa parte della natura. Il problema è che l’ordinario e il naturale non definiscono un campo piatto e lineare, ma un dominio complesso di discontinuità. A pagina 80 leggiamo: «con la sola eccezione dell’avanguardia e di qualche forma di manierismo che d’altra pare presuppone la norma, l’arte si è sempre espressa nel linguaggio ordinario: parole comuni (spesso anzi alcune opere divengono la norma linguistica corrente), pitture immediatamente riconoscibili dagli spettatori, etc.». Non mi risulta che sia così semplice. L’arte di un tragediografo può esprimersi ricorrendo a sensibilia, fonemi e morfemi ordinari; ma l’esperienza estetica sta nel fatto che l’aisthesis risultante, emergente dalla combinazione di fonemi e morfemi ordinari evoca e fa risuonare o riecheggiare dei sentimenti che altre combinazioni di sensibilia ordinari non provocherebbero (e può evocarne di contrastanti, può provocare l’esperienza dell’ambiguità, può avere una non-esplicitabile densità semantica e simbolica, etc.). Il che significa che nell’universo dell’aisthesis ci sono discontinuità: ridurre le opere d’arte a sensibilia di taglia media che fungono da Fidanzate Automatiche di uomini medi non dice nulla sulla fenomenologia dell’esperienza estetica, dell’aisthesis estetica, che può riguardare diversamente i diversi uomini e che non è mai la stessa neppure per lo stesso uomo.

Leggi il commento di Ugo Morelli

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