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Amartya K. Sen, Identità e violenza

Laterza, 2006

Recensione di Antonio Castagna


copertinaI discorsi su violenza politica, terrorismo e identità (islamica, occidentale, cristiana, araba, ecc.) continuano a intrecciarsi e confondersi sui media di tutto il mondo. Questo accade ormai in maniera quasi automatica. Per esempio, si parla di terrorismo islamico senza che nessuno si interroghi sul senso di questa espressione, così come nessuno si interroga sul significato del sostantivo “occidente”. Amartya Sen in “Identità e violenza” ci offre una riflessione proprio su questo intreccio, provando a illuminarlo attraverso le teorie sullo sviluppo, sulla democrazia e sull’equità che caratterizzano altri suoi lavori. Il discorso sull’identità è profondamente connesso non solo con la sua storia intellettuale, ma anche con la sua storia personale, lo rivelano due aneddoti. Il primo si trova già nel prologo, dove racconta quando, arrivato in un aeroporto del Regno Unito, dovette passare i normali controlli alla dogana. Sui suoi documenti aveva indicato come domicilio la residenza del Rettore del Trinity College di Cambridge. Il funzionario dell’immigrazione gli domandò se lui e il Rettore fossero molto amici. Sen con invidiabile senso dell’umorismo si interroga su quanto, in effetti, possa dirsi amico di se stesso. Il secondo aneddoto lo racconta invece all’inizio del nono e ultimo dei capitoli che compongono il testo, “Libertà di pensiero”. Risale al 1944, all’età di undici anni, quando viveva a Dacca, nel Bengala. Erano i giorni in cui si scatenò la violenza tra gli estremisti indù e gli estremisti islamici, prima della separazione tra India e Pakistan. Un uomo che si era trovato a passare da un quartiere della borghesia indù, dopo essere stato colpito a morte perché musulmano, si trascinò in cerca d’aiuto nel giardino della famiglia Sen. Dentro questo cerchio, che contiene la sua vita, sembra ricorrere la connessione tra violenza e identità. I problemi, secondo Sen nascono quando si passa da un’idea di identità come affiliazione molteplice e «concorrente» a un’idea di identità che l’autore definisce «solitarista». La prima comprende, insieme al luogo di nascita, la residenza, la professione, il genere, l’orientamento politico, la religione, con la prevalenza, di volta in volta, a seconda delle circostanze, dell’una o dell’altra affiliazione e dove non c’è mai una dimensione che sovrasti definitivamente le altre. La seconda invece è di tipo riduzionista ed esclusiva e arriva a negare la molteplicità delle identità in nome di una dominante. È questa seconda accezione, quella che apre la strada a sentimenti di appartenenza nei confronti di gruppi settari, che può alimentare la discordia nei confronti di tutti gli altri gruppi, fino a trasformare, nel giro di pochi giorni, pacifici cittadini in spietati assassini che uccidono con «trasporto», come successe in India poco prima della «partition» dal Pakistan, in Rwanda tra Hutu e Tutsi nel 1994, nella ex Iugoslavia negli stessi anni, come continua ad accadere in Iraq dove le appartenenze a carattere etnico e religioso hanno finito per prendere il sopravvento sul sentimento di comune appartenenza alla nazione irachena.
Il punto su cui Sen pone l’accento nei primi tre capitoli del libro è che l’idea di un’identità «solitarista» ha insospettati alleati animati dalle migliori intenzioni. I comunitaristi per esempio, che hanno finito per sostenere un’idea di appartenenza a una cultura per nascita, contribuendo a trasformare l’idea di una società multiculturale in una sorta di «monoculturalismo plurale». Tale deriva sembra attualmente possibile ad esempio in Gran Bretagna, dove pure il processo di integrazione e inclusione degli immigrati, riconosce Sen, è stato particolarmente efficace, ma dove l’istituzione e il finanziamento statale di scuole confessionali rischia di riportare ognuno dentro un recinto dove è l’identità religiosa a prevalere, annullando tutte le altre. Per Sen il vero problema sorge quando l’identità coincide con la scoperta di una radice autentica, come è nel linguaggio dei comunitaristi, allora non prevede la scelta, che invece è il motore del cambiamento e della responsabilità. L’idea che l’identità derivi da un processo di scoperta finisce per promuovere un’idea di istruzione che immerga «i bambini nell’ethos dei padri» (p. 163), mentre libertà coincide per l’autore con l’avere una cultura variegata e diversità di esperienze. Sen a questo proposito ribadisce alcune sue convinzioni, presenti in altri testi come “Razionalità e libertà” (Il Mulino, 2005) che la vera libertà coincide con la possibilità di scegliere razionalmente tra diverse alternative.
L’altra grande alleata di un’idea solitarista dell’identità è secondo l’autore l’abitudine alla classificazione, che riducendo le persone, le culture, i paesi, a un solo carattere, finisce per annullarne la diversificazione interna. Un esempio su tutti è la classificazione che Samuel Huntington, celeberrimo autore de “Lo scontro di civiltà” (Garzanti, 2000), fa tra paesi occidentali, paesi islamici, induisti ecc. Dalla sua classificazione l’India risulta un paese induista. Huntington però trascura il fatto che se è vero che l’80% della popolazione è di religione indù, tuttavia l’India è il terzo paese al mondo dopo l’Indonesia e il Pakistan per numero di musulmani, e ospita al suo interno anche sikh, buddisti (religione che nasce in India), cristiani (già dal IV secolo, due secoli prima della Gran Bretagna), nonché laici, atei, agnostici e quant’altro. Tale classificazione fa perdere di vista ad esempio che il presidente indiano è un musulmano, mentre il capo del governo è un sikh, il che sta a indicare che le linee identitarie in India passano soprattutto per affiliazioni diverse da quelle religiose.
Anche gli avversari, ci dice però Sen, condividono «lo stesso smorto approccio» (p. 43). Sostenengono infatti che è naturale l’espressione di sentimenti di amicizia nei confronti di chi appartiene a civiltà diverse. È un approccio non violento, beninteso, ma che comunque opera un regime di riduzione dell’altro a un’identità monodimensionale.
In realtà, secondo Sen, sia il comunitarismo che l’abitudine alle classificazioni, non fanno che mettere un filtro sulla conoscenza, rendendoci «prigionieri delle civiltà» (cap. III). In questo modo finiamo per non vedere più la varietà contenuta nella storia dei paesi, delle civiltà e degli individui. Tale approccio, che ha importanti precedenti in epoca coloniale, ha conosciuto le sue migliori fortune dopo l’11 settembre. I governi occidentali, e quello britannico in particolare, lo rivelano ad esempio quando si rivolgono ai cosiddetti musulmani moderati per qualsiasi problema o provvedimento che riguardi la popolazione immigrata e la popolazione di fede islamica. Il tentativo di tirare la religione dalla propria parte non fa altro, secondo l’autore, che ribadirne la centralità e la superiorità rispetto a tutte le altre affiliazioni costituenti l’identità di ogni individuo.
Anche l’idea di islam e di paese islamico naturalmente risentono di questo tipo di semplificazioni. Sen dedica il quarto e il quinto capitolo a mostrare alcuni aspetti delle culture africane e asiatiche normalmente trascurate dalle semplificazioni giornalistiche e politiche. Alle pratiche del «dibattito pubblico», tema che aveva già trattato in «La democrazia degli altri» (Mondadori, 2004), presenti in tutti i paesi in diversi momenti storici che possono arricchire la stessa idea di democrazia, superandone una visione occidentalista che finisce per ridurla alla pratica del voto. Ma anche all’evoluzione della scienza nei paesi arabi, nel subcontinente indiano e in Cina, aree del mondo che hanno fortemente contribuito, in epoca medievale, all’evoluzione della matematica. Ma esistono anche esempi recenti e molteplici del contributo dato all’economia da Mahbub ul-Haq, ex Ministro Pakistano delle Finanze per esempio, inventore dell’”indice dello sviluppo umano”, che tiene conto del reddito e di una pluralità di altre variabili e che ha permesso la pubblicazione annuale degli “Human Development Reports”, da parte delle Nazioni Unite. Per non parlare del fatto che persino la tecnologia con la quale vennero costruite le Torri Gemelle viene dall’ingegnere musulmano e patriota bengalese Fazlur Rahman Khan.
L’aspetto paradossale delle semplificazioni, che hanno le loro radici nel colonialismo, ma che ora conoscono una nuova stagione fortunata, è che in esse finiscono per rispecchiarsi persino le vittime. La fama dell’India come paese dedito alla spiritualità piuttosto che animato da spirito pratico e scientifico, viene infatti dall’immagine che ne davano gli inglesi colonizzatori in cui gli indiani, anche per sopravvivere, finirono per rispecchiarsi. L’identità dunque emergerebbe come esito di un continuo gioco di specchi, il che è tutt’altro che consolatorio, in quanto chiama a una responsabilità che è insieme individuale e collettiva. Il rischio che si corre è infatti quello di una «miniaturizzazione» reciproca degli esseri umani, imprigionati in identità solitariste e monodimensionali. La proposta di Sen è di dar vita a un processo democratico globale, che nel suo linguaggio coincide con l’idea di dibattito pubblico, che tenga conto non solo delle questioni economiche, che sembrano caratterizzare prevalentemente i discorsi sulla globalizzazione, ma anche di questioni legate ai valori e all’etica. Non certo per dar vita a un’identità globalizzata che annulli e sostituisca tutte le altre, ma proprio perché il dibattito possa considerare le appartenenze molteplici.
Il continuo passaggio, nel testo, da questioni del presente a questioni del passato coloniale, il lavoro di intreccio e messa in relazione di fatti e fenomeni apparentemente diversi e indipendenti l’uno dall’altro, se rende magari più complessa la lettura, con continui cambi di piano temporale e di oggetto di analisi, tuttavia è probabilmente anche l’aspetto migliore del libro, perché aiuta a collocare il tema della violenza, in processi storici di lunga durata, dove più che le relazioni di causa effetto, risultano potenti i processi di continuo rispecchiamento tra individui e popolazioni, nei quali il ruolo degli studiosi, dei giornalisti, degli scienziati, risulta particolarmente significativo nell’alimentare il dibattito o nello spegnerlo, fornendo semplificazioni che, abilmente manipolate e alimentate magari dal senso di ingiustizia, possono favorire l’esplosione della violenza.
La razionalità di Sen nell’osservare questo tipo di fenomeni, esercitata intrecciando un approccio scientifico multidisciplinare all’analisi dei casi della sua stessa biografia, ci restituisce un’idea di identità come scelta, e quindi come responsabilità, individuale e collettiva attenta alle possibilità ma anche ai limiti. «La fattibilità, nel caso delle identità, dipenderà dalle caratteristiche individuali e dalle circostanze che determinano le possibilità alternative che ci sono aperte. Ma tutto ciò non ha niente di particolare. Non è altro che il contesto in cui ogni scelta, in qualsiasi campo, si trova a operare» (p.7).
«Se la scelta è possibile – scrive a p. 11 – ma si dà per scontato che non lo sia, l’uso della ragione può essere sostituito dall’accettazione acritica di un comportamento conformista, anche il più repellente». La domanda che potremmo farci a questo punto è piuttosto sulle condizioni che favoriscono la realizzazione di percorsi di scelta. Sen da questo punto di vista si limita alla descrizione del fenomeno, lo intreccia a quello della democrazia e del discorso pubblico, non approfondisce mai, però, le piste possibili di intervento. Si limita a indicare la via della partecipazione, anche in forme che possono essere poco condivisibili, dal suo punto di vista, ma che contribuiscono alla costruzione di una «identità globale» senza cancellare «le altre fedeltà» (p. 188), scrive nell’ultimo paragrafo, intitolato significativamente: “Un mondo possibile”. Viviamo infatti in un contesto che favorisce le scelte conformiste, ma queste non possono dipendere solo dalla presenza di élite («istigatori», p. 178) che promuovendo analisi finalizzate a separare, isolare e semplificare, producono la violenza come conseguenza diretta. Il problema è piuttosto quello della mancanza di uno spazio di «discussione pubblica» che le moderne democrazie, con il processo di riduzione alla loro dimensione procedurale, hanno finito per annullare.
L’altra pista indicata e approfondita in altri lavori è quella del sapere e della conoscenza come valore non solo economico, ma come contributo nella ricerca di possibilità inedite di scelta.
Per tutto questo risulta fondamentale il ruolo della politica: contribuire a trasformare, a inventare il futuro, non ad accontentarsi del presente. Per quello basta una buona amministrazione della burocrazia.


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