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Civiltà o barbarie.

L’azione conflittuale contro l’indifferenza volonterosa prossima ventura.

di Ugo Morelli


Recensione multipla:

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La Russia di Putin, di Anna Politkovskaja
Adelphi, Milano, 2004
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Sicuri di morire, la violenza nell’epoca della globalizzazione, di Arjun Appadurai
Meltemi, Roma, 2005

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Contro l’idolatria, di Moni Ovadia
Einaudi, Torino, 2005
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Contro il relativismo, di Giovanni Jervis
Laterza, Roma-Bari, 2005
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L’impresa irresponsabile, di Luciano Gallino
Einaudi, Torino 2005
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A colpi di machete, di Jean Hatzfeld
Bompiani, Milano, 2004
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Il mondo magico. Prolegomeni di uno studio del magismo, di Ernesto De Martino
Einaudi, Torino, 1948
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Sud e magia, di Ernesto De Martino
Feltrinelli, Milano, 1959

“Uno è tanto più autentico quanto più somiglia
all’idea che ha sognato di se stesso”

[Pedro Almodovar, Tutto su mia madre]

La faticosa conquista della presenza
non si risolve mai

[E. De Martino]

L’indifferenza volonterosa è uno degli spettri, per giunta inconsapevoli, che si frappone alla possibilità di una civiltà planetaria capace di solidarietà. Agisce nella quotidianità delle relazioni, nella vita economica e organizzativa, e nei sistemi socio-politici. L’indifferenza volonterosa, quella che, ad esempio, fa apparire Vladimir Putin come un “bravo ragazzo”o un manager sagacemente impegnato per la produttività come un eroe del nostro tempo, tutto finanza e pubblicità, attraversa il nostro presente. Sono tutti aspetti della versione compassionevole del capitalismo, ora che è l’unica forma non solo vigente ma pensabile, anzi la forma di vita unica e indiscussa.
L’ordine di Beslan è un effetto dell’indifferenza combinata con un sistema di potere che produce spazi per l’irresponsabilità, per non rispondere delle azioni, neutralizzando le fonti delle decisioni. La testimonianza dell’unico terrorista ceceno catturato vivo a Beslan, Nurpasha Kulaev, resa il 2 giugno 2005 nell’aula del tribunale di Vladikavkaz, mostra come la più impressionante tragedia della Russia contemporanea sarebbe stata causata da uno scontro di potere tra i vertici militari (cfr. G. Visetti, la Repubblica, 3 giugno 2005). Alla base della strage di bambini e adulti vi sarebbe il torbido intreccio di poteri tra esercito, Fsb erede del Kgb, e autorità dell’Ossezia del Nord. Alle 13,05 del 3 settembre 2004, di fronte al primo scoppio e al silenzio dall’altra parte del telefono, i terroristi capirono che il Cremlino aveva scelto il bagno di sangue. I parenti dei morti sopravvissuti hanno supplicato il terrorista di dire la verità, promettendogli di chiedere la grazia per lui, mentre hanno trovato la sua testimonianza verosimile agli eventi a cui hanno assistito. Intanto nessun responsabile militare o dei servizi segreti è stato rimosso, nonostante le promesse di Putin. Questo è il modo di gestire i conflitti nella Russia di Putin. Quel Putin che l’Occidente presenta come un “ragazzo volonteroso” cercando di tranquillizzarsi. La storia di Beslan appare così come un capitolo de La Russia di Putin, di Anna Politkovskaja, uscito nel 2004 e pubblicato in Italia da Adelphi, Milano, nel 2005. Si tratta di “un libro di appunti appassionati a margine della vita come la si vive oggi in Russia”, come lo presenta la stessa autrice. Non si avvale, il libro, del passo indietro dell’analisi, ma proprio per questo, la scrittura in presa diretta conduce dentro il clima di corruzione e paura che caratterizza la vita di un’intera immensa società. Gli interessi dei militari e la paura emergono dal testo come i costituenti della vita russa di oggi. Il modesto ufficiale dell’ex Kgb, divorato da passioni imperiali, resta perfino sullo sfondo. E’ la paura il codice del presente russo. Come lo è del mondo attuale. “Frontiere finanziarie permeabili, identità mobili e tecnologie rapide di comunicazione e transazione producono nel complesso una serie di dibattiti, entro e attraverso i confini nazionali, che costituiscono un nuovo potenziale di violenza (…..) (p. 23), scrive Arjun Appadurai in Sicuri da morire, la violenza nell’epoca della globalizzazione, pubblicato da Meltemi, Roma, nel 2005. Il libro indaga la relazione tra globalizzazione, incertezza e incompletezza e cerca di aiutare a comprendere “in quali casi l’ansia di incompletezza e livelli insostenibili di incertezza si combinano secondo modalità che danno vita a mobilitazioni etnocide su larga scala” (p.14). Spesso la violenza è praticata nel tentativo di ripristinare la “purezza perduta” a causa delle trasformazioni economiche e della globalizzazione, per il ripristino di differenze e identità etniche, per l’indigenismo e la sovranità nazionale, che derivano proprio dallo scontro di universalismi in competizione come quelli della libertà, del mercato, della democrazia e dei diritti, che in epoca precedente semplicemente non funzionavano come funzionano oggi (cfr. p. 26). La difesa di un’astratta comunità dall’altro è fondata su un’enfasi della paura. L’istanza paranoide si sposta verso un’accentuazione delle differenze e la differenza si trasforma in prevalente ansia di completezza. Si tratterà a quel punto di mettere argini al dilagare degli incontri e delle relazioni, e la paura e la sicurezza divengono una pratica amministrativa. L’uso politico della paura diviene una chiave di lettura indispensabile sia per comprendere le degenerazioni del conflitto in violenza e guerra, ma anche per riconoscere come la paura, depoliticizzata, diviene uno strumento di creazione di consenso e di inibizione di dissenso. Proprio sul governo di questa passione innominabile, la paura, è costruito il saggio di Corey Robin, Paura. La politica del dominio, Università Bocconi, Milano 2005.
Tra fondamentalismo idolatra e relativismo paralizzante, cerchiamo di rispondere alla paura. Un’elaborazione tutta protesa a definire ciò che sarebbe autentico e come tale separato dall’altro. Il mito dell’autenticità, l’idolatria autoreferenziale non lasciano spazio all’ironia e all’umorismo, alla distanza da se stessi che può consentire di “beneficiare della propria goffaggine” suggerendoci di guardarci allo specchio. E’ quanto sostiene con genialità e gusto Moni Ovadia in Contro l’idolatria, pubblicato da Einaudi, Torino nel 2005. Alla ricerca della via per perseguire l’ideale estremo di libertà e uguaglianza, Ovadia suggerisce che quell’ideale vada perseguito con determinazione e disincanto. Il suo è un grido e un canto allo stesso tempo per smascherare i fondamentalismi e le idolatrie in cui tendiamo a rifugiarci. E’ una lucida riflessione sui modi in cui “prende piede la peggiore idolatria: fare del Dio di tutte le genti della Terra – che fonda l’universale umano, la libertà, l’uguaglianza e la fratellanza – un idolo fazioso disponibile a ogni uso di parte”. La strada ai fanatismi la può aprire anche il relativismo, secondo Giovanni Jervis, in Contro il relativismo, Laterza, Roma – Bari 2005. Riportando i fenomeni conflittuali alle dinamiche interiori è possibile riconoscere qualcosa di universale nell’esperienza umana, nello “smarrimento dell’animo di fronte alla violenza della natura”, nei tentativi spontanei di mitigare l’incertezza e nell’umanissimo bisogno di rivolgersi al cielo nei momenti difficili. Tutto ciò non conduce di per sé all’intolleranza e al fondamentalismo escludente e negante. E’ la specializzazione e radicalizzazione delle forme che genera i mostri devastanti, combinata con la tendenza umana alla gregarietà e all’eccedere in ubbidienza. Jervis cita Richard Dawkins che in una lettera alla figlia ebbe a scrivere che, oltre a esserci a disposizione di ciascuno tante buone ragioni per costruire conoscenze ben fondate, vi sono anche tre cattive ragioni per acquisire credenze che si chiamano “tradizione”, “autorità” e “rivelazione”. “E invero”, scrive Jervis, “ fra le più naturali follie della nostra mente, sembra vi sia la tendenza a credere che i principi-guida del comportamento debbano venirci dai grandi interpreti della volontà del cielo, invece che da tante persone più prossime a noi” (p. 19). L’alterazione della nostra capacità di esame di realtà è uno dei problemi principali dell’affermazione dei principi del tipo “tutto è vero, tutto è falso”. Non si tratta, comunque, a partire dalle considerazioni di Jervis, di ritenere che la capacità di fare un esame di realtà significhi espellere l’incertezza. L’incertezza è costitutiva della nostra presenza tanto quanto la nostra aspettativa di certezza. Se è opportuno criticare la convinzione che ritiene che i fatti non ci dicano nulla di preciso perché conterebbe solo il modo di vederli, è necessario riconoscere le trasformazioni della scienza dopo il “linguistic turn” del ventesimo secolo. Siamo linguaggio e la nostra osservazione del mondo è fatta di accoppiamento strutturale fra realtà e osservazione. Ciò non toglie che, all’interno di una democrazia della differenza dei punti di vista, vi siano cose e interpretazioni migliori di altre. Per criticare il relativismo come mentalità antiscientifica, anti-illuministica e anti-moderna, non si tratta di riaffermare lo sguardo ineffabile della scienza positiva che rispecchierebbe la natura, né di negare gli effetti controintuitivi della modernità e cerca di elaborali. Né tanto meno si tratta di accogliere qualche istanza fondazionista rinunciando alla ricerca da parte dell’uomo delle fragili condizioni della propria responsabile autofondazione relazionale e soggettiva. Si tratta di cercare di accogliere la complessità conflittuale che la ricerca delle condizioni per contenere la differenza comporta. Riflettendo attentamente si può scoprire come sia proprio il rapporto tra autonomia individuale e responsabilità una delle questioni cruciali. Nell’esperienza lavorativa contemporanea, la combinazione tra indifferenza e compiacimento interessato da parte dei manager, di coloro cioè che dovrebbero esercitare la più elevata responsabilità nelle aziende, porta all’affermazione dell’impresa irresponsabile, come la chiama Luciano Gallino in L’impresa irresponsabile, Einaudi, Torino 2005. Le imprese non paiono tenere conto delle conseguenze delle loro attività e del modo di gestirle, sulle vite delle persone. Secondo Gallino “si definisce irresponsabile un’impresa che al di là degli elementari obblighi di legge suppone di non dover rispondere ad alcuna autorità pubblica e privata, né all’opinione pubblica, in merito alle conseguenze in campo economico, sociale e ambientale delle sue attività”. Il management trasforma le persone e i gruppi in strumenti per raggiungere l’unico obiettivo dell’impresa individuato nella massimizzazione a ogni costo e a breve termine del suo valore di mercato in borsa. Questa cultura dell’indifferenza e della specializzazione del significato del fare impresa è legittimata nei linguaggi ufficiali ma anche in quell’ampio alone di consenso che costituisce una mentalità e uno “spirito del tempo” che tendono a presentarsi come naturali. Il conflitto è perlopiù evitato o negato. Il legame sociale tende a divenire inaccessibile e l’indifferenza sostituisce il conflitto nell’età dell’informazione. L’esclusione ha del resto la stessa origine, fino alle sue forme estreme dell’annientamento. Diviene normale. Il genocidio come proseguimento del lavoro normale. Sembra questo il motivo che accomuna le testimonianze degli esecutori della carneficina del Ruanda, in cui vennero massacrati ottocentomila tutsi su poco più di un milione e quattrocentomila, da parte degli hutu, in circa dodici settimane. I dieci prigionieri che hanno rilasciato le proprie testimonianze a dieci anni dagli avvenimenti si considerano persone che hanno svolto un lavoro, con l’attrezzo più usato dai contadini e con le tecniche e le cadenze del lavoro stagionale, come ha documentato recentemente J. Hatzfeld in A colpi di machete, Bompiani, Milano 2004. Ogni tentativo di verifica non consente di trovare “la causa” del genocidio. I secolari litigi per le vacche, la competizione per le terre e il potere politico, l’invidia degli hutu per la bellezza dei tutsi, i guasti del colonialismo, l’Onu che scappa, sono tutte ragioni esistenti, ma non spiegano ciò che è successo in Ruanda. Si tratta di un prolungamento dell’arcaico nella contemporaneità o è la contemporaneità che consente la consapevolezza e il riconoscimento della continuità, dell’immutabile, di ciò che è sempre stato? Non vi è risposta all’ambiguità. L’indifferenza appare comunque il codice di questa esperienza. L’indifferenza; ma come si genera? Esiste un rapporto direttamente proporzionale tra istituzioni, informazione, comunicazione, educazione e indifferenza: in una parola tra azione e indifferenza. Così come esiste un rapporto direttamente proporzionale tra analfabetismo e totalitarismo. Vi è forse un analfabetismo graduale: la prima volta della radio, con il nazismo e, ora, della televisione? L’ignoranza genera paura, ma il conflitto ha bisogno di negare oltre che di conoscere (ancora l’ambiguità).
E’, tuttavia, molto meno probabile che due democrazie si dichiarino e si facciano la guerra: ciò non esime dall’analizzare le profonde dinamiche dei conflitti interiori e il rapporto tra i conflitti nella mente e le menti in conflitto. Così come è decisivo considerare i processi di naturalizzazione / assuefazione che l’informazione produce, vincolando a volte anche pesantemente la pensabilità e l’accessibilità del conflitto. Anche l’inaccessibilità del conflitto sembra frutto di una negazione, di una attività relazionale e sociale che porta a negare quella che I. Matte Blanco definiva conflittualità intrapsichica costitutiva. La sua negazione fa da péndant al non riconoscimento e alla negazione della conflittualità istituzionale e organizzativa e delle sue proprietà costitutive.
I vincoli dell’accesso al conflitto si esprimono perciò sia a livello di conflitto intrapsichico che di conflitto della conoscenza.
Secondo Ernesto De Martino, uno degli aspetti dell’angoscia umana è la perdita della presenza. La presenza a cui De Martino fa riferimento è una condizione che gli esseri umani non cessano di cercare e costruire per sottrarsi all’idea, angosciosa, di non esserci, come è documentato in Il mondo magico. Prolegomeni di uno studio del magismo, Einaudi, Torino 1948 e in Sud e magia, Feltrinelli, Milano 1959. Ogni perturbazione della presenza tende ad essere negata in molteplici modi. Uno dei più consueti è quello che porta a semplificare la complessità del mondo riconducendo tutto ad una sola causa. La potenza semplificatrice della magia svolge questa funzione e si afferma per questa via. La ricerca di affermazione della presenza come stabilità trova nell’emergere del pensiero magico, secondo De Martino, un primo tentativo coerente di affermare la presenza umana nel mondo.
Il mondo magico diviene uno spazio di pensiero e di azione in cui l’uomo realizza la propria volontà di esserci di fronte al rischio di non esserci.
La creazione del nemico unico e il ruolo dell’informazione che rinforza il fantasma del nemico svolgono oggi una funzione analoga, mostrando un ruolo “neo-magico” di conferma della semiosi virtuale e mediatici e generando perfino le condizioni di un terrore senza luogo.
Ma è possibile che non riusciamo a conoscere e a prevenire e agiamo ciecamente in modo che quando ci verrà la depressione sarà un sentimento inutile? Tanto sarà il dolore che avremo generato con l’euforia paranoide?

Ugo Morelli


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