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Carla Weber, Empatia e psicoterapia

intervista con la giornalista Giuliana Izzo, apparsa in versione ridotta sul periodico Uomo Citta' Territorio / scritto il 19-05-2015

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Secondo lei tutte le mamme sono in grado di avere un rapporto empatico con il proprio bambino?

La specie umana si distingue da altre specie animali per la lunga cura di cui ha bisogno un nuovo nato. Siamo una specie neotenica, il piccolo dell’uomo nasce con un sistema cervello-mente incompleto e neuroplastico e sarà nell’interazione con il corpo-mente della madre e l’ambiente esterno che svilupperà la percezione di sé nella relazione con l’altro da sé. Gli studi di ricerca in psicologia evolutiva e in psicoanalisi, assegnano al rapporto madre-bambino, considerandola un’unità diadica, la base costitutiva del senso di sé e della sua pensabilità nell’interazione con l’ambiente, fatto di oggetti e di persone e della regolazione del proprio movimento e della propria intenzionalità nello spazio e nel tempo. Potrei rispondere alla sua domanda dicendo che nel codice materno, come lo definì Franco Fornari, sta il fondamento di quella relazione affettiva primaria che ci fonda come soggetti. Si tratta dell’esperienza di una relazione di reciprocità, di risonanza empatica fatta del calore di un contatto nutriente e sensorialmente gratificante tra corpi che nel movimento, nella musicalità, cercano una sintonizzazione e la soddisfazione di bisogni e tensioni desideranti, vitali che permetteranno al bambino di sviluppare nei primi due anni di vita una rappresentazione degli oggetti, delle relazioni intersoggettive, delle situazioni. Dimentichiamo però che le madri sono a loro volta figlie, la loro capacità empatica si è formata nella loro storia affettiva primaria, nelle possibilità di fare esperienza di rêverie materna, di essere riconosciute esistenti e capaci di generare e di avere cura della loro generatività. Un’altra cosa che non consideriamo è che l’empatia materna per potersi esprimere qualitativamente necessita a sua volta di protezione e cura e questo riguarderebbe la funzione paterna, spesso carente, ma quasi mai considerata, così come carente è il contesto di relazioni sociali in cui la donna cresce i propri figli. Alle donne, divenute madri viene chiesto di essere madri ideali, perfette, di comprendere e rispondere da sole a tutti i bisogni. Tutta a responsabilità viene impropriamente caricata su un idealizzazione della madre e poco si fa socialmente e politicamente per avere cura delle donne che vivono realmente l’esperienza della maternità. Come sono vissute prima di divenire madri? In quali condizioni lo sono diventate? Sono amate? Ricevono comprensione, affiancamento, supporto se sono in difficoltà con il loro bambino? E noi, siamo socialmente e culturamente in grado di empatizzare con una difficoltà di natura psicologica dell’essere madri? I vincoli culturali, economici e sociali possono divenire insormontabili a certe condizioni e possono aprire percorsi patogeni nella relazione madre-bambino che può, come le cronache ci documentano, arrivare a sopprimere ciò che ha generato.

L’empatia è una qualità innata: di conseguenza non tutti ne sono dotati?

Intende con questa domanda che o ce l’hai dalla nascita o non ce l’hai? Esiste una base naturale dell’empatia, mi riferisco alla scoperta neuroscientifica dei neuroni specchio avvenuta all’inizio degli anni novanta, verificata con i primati superiori e poi con l’uomo. Nella natura umana però non è scindibile ciò che afferisce alla natura dal dato culturale. Noi umani non abbiamo un rapporto diretto con la realtà fenomenica, è sempre mediata dalle nostre immagini, rappresentazioni e significazioni e questo ci rende soggetti naturalculturali.
Nel bambino autistico i neuroni specchio possono non attivarsi nella relazione intersoggettiva ma si possono attivare connessioni per altre vie mediate dalla relazione affettiva e di cura di quel vincolo. Così come un bambino senza alcun vincolo strutturale a livello neuronale può sviluppare comportamenti dai quali si evince quanto quella competenza empatica venga affinata per eludere i vincoli di assoggettamento alla relazione affettiva, anziché corrisponderle. Gli effetti di relazioni affettive primarie che generano autonomie apparenti, come quelle del disturbo di iperattività e incapacità di concentrazione, indicano quanto l’empatia del bambino con le aspettative di chi ne ha cura possa prendere vie paradossali e patologiche. Il narcisismo, l’indifferenza e l’anaffettività si presentano oggi come disturbi gravi della nostra naturale intersoggettività umana, in cui l’empatia viene sfruttata per meglio difendersi, attaccare, violentare, distruggere l’altro.

Possiamo far diventare più empatico il nostro prossimo?

Le vie sono quelle della cura e dell’educazione. Dapprima impariamo, sperimentando fin da piccoli le opportunità emancipative e creative della dipendenza nella risonanza empatica con chi ci cresce in una relazione sicura. In seguito le altre relazioni educative ed affettive che andranno a comporre la nostra vita consolideranno le capacità che avremo di sentire e di esprimerci facendo i conti con la vulnerabilità e la forza delle emozioni in gioco, mentre cerchiamo di mettere in atto desideri che hanno bisogno dell’altro per essere realizzati. L’empatia, a mio avviso, può essere educata con la responsabilità che ognuno può assumersi verso una propria “educazione sentimentale” come Luigi Pagliarani diceva parafrasando Gustave Flaubert. L’implicito è che ci possiamo occupare del nostro prossimo se prima ci occupiamo di noi stessi, della nostra educazione sentimentale per generare e allevare i figli, nelle coppie, nei gruppi umani e nelle istituzioni.

Invecchiando l’empatia si affievolisce o è vero piuttosto che aumenta?

Quello che mi viene da dire riguarda il fatto che noi esseri umani siamo la nostra storia, cioè siamo quello che riusciamo a divenire. Non ne sappiamo abbastanza di quello che ne facciamo di quella base naturale che può essere documentata dalla attività dei neuroni specchio, poiché il livello sperimentale dovrebbe isolare comportamenti enormemente arricchiti dalla complessità dell’esperienza dell’altro. Quella scoperta neuroscientifica ha confermato la naturale intersoggettività umana, ma non la qualità delle relazioni che ci scambiamo. Tendiamo a pensare l’empatia come una qualità positiva orientata al bene dell’altra persona, ma l’empatia dei neuroni specchio non riguarda il pensiero, riguarda una dimensione senso-motoria. Quello che noi facciamo a partire da quella risonanza di base riguarda processi molto più complessi e non sempre di possibile comprensione. Se parliamo di storia personale siamo in un ambito di grande complessità delle esperienze di relazione e i livelli in gioco di risonanza relazionale sono quelli intrapsichici, interpersonali, gruppali e collettivi nelle culture di appartenenza e nei contesti di vita. L’aumentare o l’affievolirsi dell’empatia riguarda non tanto l’empatia naturale di base, ma come quella persona nel tempo ha fatto fruttare quella capacità, l’ha esercitata ed ha elaborato nel tempo livelli di integrazione elevati contenendo emotivamente la complessità, trasformando quello che sente in linguaggio e comportamenti socialmente condivisibili.

Trento, 8 dicembre 2014