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Siamo ancora capaci di indignarci?

di Carla Weber / scritto il 22-11-2006

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Mi sto chiedendo, insieme ad altri per la verità, perché non c’è reazione alle inchieste di Report, il programma Rai tre condotto da Milena Gabanelli. Mentre ci lamentiamo che in Italia è difficile usufruire di un giornalismo d’inchiesta, quando una giornalista lo fa e lo fa bene, con serietà, è come se non ci fosse. Il mattino dopo non c’è traccia sulla stampa, non viene ripresa alcuna notizia come succede invece per altri fatti scandalistici o di cronaca nera. Un direttore di giornale che conosco mi ricorda che un giornale se vuole sopravvivere non può non tenere conto della legge di mercato e si vende di più con notizie che stupiscono, fanno scandalo, creano fazioni pro e contro, sollevano dubbi e misteri, parlano di sesso, fanno ridere o mettono in ridicolo.
Eppure lo share di Report è alto e Milena Gabanelli è diventata un volto conosciuto della tivù, una figura riconosciuta, nei sondaggi di settore, per professionalità e rigore. Non sono stati trovati finora elementi di attacco o discredito alla sua persona e alle inchieste che porta avanti, poiché si prepara a documentare tutto, a rispondere a ogni querela. I temi che affronta ci riguardano da vicino, fanno pensare, preoccupano e sconcertano. Toccano tutti poiché richiamano alle responsabilità delle regole nella politica, nell’economia, nella vita civile, alla coerenza tra istanze diverse e alla pratica della trasparenza e della verità in un sistema sociale che si definisce democratico.
Tuttavia l’incisività nella vita reale delle notizie svelate da questo programma televisivo sembra bassa come se fossimo preparati al peggio, rassegnati al fatto che “le cose vanno così”, non siamo più capaci di indignarci, prevale, alla fine della trasmissione, lo spaesamento e il senso di impotenza. Ci facciamo dunque un po’ di male, in modo masochistico, nel seguire i report delle inchieste e le puntuali documentazioni e ci accontentiamo di appartenere al numero dei cittadini che sanno e hanno una certa consapevolezza di quanto accade di iniquo, disumano, incivile. Questo sapere, l’essere cioè informati, sembra però non darci alcuna forma di potere trasformativo. Rabbia e sconcerto faticano a trovare le vie per attivare azioni possibili come cittadini di una comunità, di un paese, in quanto si evita preferibilmente il conflitto che il sapere comporta.
Il contributo di un giornalismo d’inchiesta rischia in questo modo di perdere la sua forza. Se la libertà di tutti noi soffre quando la voce dei giornalisti è assente, quando c’è non riusciamo ad utilizzarla, perché? Proprio il fatto che non generi scandalo è un segnale, a mio avviso, della difficoltà nostra, di persone di questo tempo, di una presa di attrito con la realtà, di una mobilitazione personale diretta. Attivarci richiede di riconoscerci corresponsabili e potenzialmente influenti in una realtà che ci troviamo a negare, perché non ci piace e che risulta allo stesso tempo frustrante in quanto ci nega, in quanto non tiene conto dei nostri diritti e della nostra presenza legittima. Per rifiutare quella negazione così spesso subita, neghiamo la potenzialità di cui siamo portatori, la quantità di potere che è in mano nostra, in modo che non possa essere negata da chi ha maggiore potere su di noi. Dimentichiamo che ciascuno di noi è la collettività, perché è attualizzata dai nostri corpi, dalle nostre emozioni, dai nostri pensieri e dalle nostre azioni. Lo sforzo richiesto di “tirarci su” ci sembra enorme, impossibile a fronte della paura e dell’orrore che proviamo. Ci “tiriamo fuori” in attesa di un cambiamento salvifico, della venuta di qualcuno, “un capo di buona speranza” come diceva Luigi Pagliarani, che indichi la via.
Di contro, quello che colpisce, è il mobilitarsi mediatico istantaneo a cui assistiamo ogni giorno per fatti che hanno per protagonisti personaggi dello spettacolo, dello sport, della politica, e anche della chiesa come se dovessimo misurare cosa è legittimo o no, chi offende chi, riferendoci al comportamento di personaggi pubblici. Un po’ come i greci si riferivano ai conflitti fra gli dei nell’Olimpo per parlare dei conflitti tra gli uomini.
C’è molta suscettibilità e poca misura nelle reazioni e nel considerare la portata simbolica delle azioni e, a volte, una arrogante banalizzazione della complessità di campi di conoscenza di cui non si sa nulla.
Mentre socialmente si considera che la libertà di espressione consente di dire tutto quello che si vuole, di fatto assistiamo a reazioni continue mediante denunce, querele, diffide quale modalità normale e non straordinaria di regolare ciò che le parti ritengono illecito. Colpisce il fatto che questa modalità di comunicazione pubblica riguardi in modo indifferenziato e come se tutti avessero lo stesso valore eventi che fanno riferimento al mondo dello spettacolo, della politica, della scienza, della religione. Non vengono riconosciuti i contesti appropriati, si confondono i codici di lettura dei fenomeni e i linguaggi disciplinari pertinenti. Si reagisce allo stesso modo nei confronti di dichiarazioni documentate con i fatti, di scambi di volgarità in un programma televisivo, di calunnie o di provocazioni. Non si tiene conto dei linguaggi propri dell’arte, dei conflitti legittimi tra saperi, culture, tecnologie e religioni. Anzi la rissa, la contrapposizione viene cercata, diviene spettacolo, crea fronti di opinioni che alimentano reciprocamente le distanze distintive. La fiction dei reality è superata dalla realtà stessa che funziona con quelle stesse regole, le regole cioè dell’audience, degli effetti speciali, delle potenzialità tecnologiche, della diffusione e partecipazione mediatica. Essere visti da tutti, mettere in scena se stessi diventa un modo per esistere, come Andy Warhol ha messo in evidenza nella sua produzione artistica. Questi fenomeni collettivi di maggiore presenza risultano però illusori e aumentare la loro portata proprio in un tempo in cui i soggetti hanno la possibilità di essere meno presenti socialmente con il proprio lavoro e i propri diritti.
Sembrerebbe una contraddizione: “si può dire tutto tanto non serve a niente”, in un caso, e “non si può dire niente, tutto sembra sollecitare suscettibilità” nell’altro. Se prestiamo attenzione notiamo che è una contraddizione solo apparente, anzi le diverse reazioni sono facce diverse della stessa medaglia. Il senso di impotenza soggettiva rispetto a fenomeni complessi e controversi di portata sociale, trova reattività immediata a comportamenti di soggetti singoli ben visibili in quanto pubblici, oggetto di identificazioni proiettive e investimenti simbolici. I conflitti espressi definiscono le appartenenze e le contrapposizioni, le fissano più che aprire all’elaborazione di nuove forme di confronto e di altre regole per consentirci il dialogo tra differenze.
Perché, viene da chiedersi, non siamo capaci di sfruttare il potere trasformativo dei conflitti? Perché l’informazione funziona da anestetico, anziché supportare scelte possibili? Perché c’è tanta intolleranza alla critica? Mentre viene continuamente praticata nessuno ci sta a riceverla. Ci si appella al fatto che “deve essere costruttiva”. Come può esserlo se non ci si mette dentro, non ci responsabilizza? Si preferisce gridare allo scandalo. Lo scandalo sembra assolvere da ogni implicazione, porta il male fuori, nell’altro, individua il capro espiatorio da sacrificare per mantenere la coesione, salvarsi dalla paura e dalla colpa.
Può essere utile, per approfondire queste domande, leggere Crisi della pensabilità della polis (in questo stesso sito).

(Carla Weber)

Crisi della pensabilità della polis