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Il lavoro e la vita

di Ugo Morelli / scritto il 03-01-2011

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Se il lavoro fosse solo strumento e mezzo per sopravvivere Marchionne, e tutti i plaudenti in coro, potrebbero anche avere ragione. Va tutto bene se si riduce il lavoro a pratica e si prosciuga del senso della vita e delle relazioni, come fonte di civiltà vivibile. Ma qualcuno parla, forse, del valore del confronto e della partecipazione come via per la gestione delle relazioni nei luoghi di lavoro? Si dice che si deve stilare un alfabeto dei diritti e delle tutele diverso da quello del passato. Lo si sostiene in nome del “dio globalizzazione” che viene brandito come una minaccia apocalittica. Che non si debbano tutelare solo color che sono già dentro, trascurando i milioni di precari, è importante riconoscerlo. Che ci voglia il superamento delle vecchie ideologie, pure. Purchè si riconosca che quella che si esibisce per giustificare decisioni che smontano il senso e il significato del lavoro e della partecipazione è un’ideologia fatta passare come spiegazione oggettiva. Questo è forse l’aspetto più importante per sistemi socio-economici locali come il nostro, autonomi e differenti. Il modello di sviluppo nell’era della globalizzazione non ha e non dovrebbe avere un pensiero unico e una sola via. Può esistere una società solidale che riconosce il valore del lavoro come fonte della civiltà umana. Possono esistere relazioni sociali e esperienze lavorative non basate sulla minaccia e sulla subordinazione.Tutti i lavoratori intervistati, anche i più consenzienti, hanno espresso il loro consenso all’accordo Fiat dicendo che va bene perché non possono fare a meno di lavorare. L’azienda è un ente sopra le parti o un’istituzione della società? La Fiat non deve niente a questo paese? Solo quando riconosceremo che l’azienda è parte della società e della cultura, delle regole e dei processi della realtà in cui opera, solo allora potremo accedere ad un modello di sviluppo all’altezza del nostro tempo: sostenibile e appropriato ai mondi della vita; non sopra quei mondi in nome di una crescita incondizionata e illimitata, in settori che peraltro non è possibile definire “del futuro”, come l’automobile. Una donna e un uomo che lavorano, portano nelle loro esperienza il proprio mondo affettivo; vivono esperienze di gruppo con i compagni di lavoro; sono parte della vita organizzativa che concorrono a costruire e che li contiene; sono cittadini di una società che è più o meno civile a seconda della cultura del lavoro che esprime. Il lavoro è perciò emozione e prassi, senso, significato e prodotto, relazioni umane e economia. Capire le emozioni umane per via scientifica vuol dire riconoscere che le componenti cognitive della mente non solo si mostrano insufficienti, ma replicano un dualismo tra cognizione ed emozioni che risulta falsificato dall'esperienza e dalla scienza. Le nostre emozioni sono strettamente connesse a quelle degli altri animali che prima di noi si collocano nel percorso evolutivo, contenendo nelle loro, le nostre caratteristiche. La nostra distinzione più elementare (la combinazione tra competenza simbolica e linguaggio verbale) ci consente di arricchire in maniera complessa e non semplice la nostra esperienza emozionalcognitiva, e noi sentiamo odio, amore,desiderio, paura, invidia, rabbia, in modi a volte incontenibili. Non possiamo controllare l’emergenza delle emozioni; possiamo in parte elaborare la loro manifestazione nei nostri comportamenti. Quando parliamo di lavoro, stiamo parlando dell’azione umana e del movimento del prendere parte ai processi della vita e della società. Quali conseguenze avrà sulla qualità della vita delle persone e sulla qualità sociale una considerazione del lavoro che lo faccia regredire a mero strumento, a mera prassi, con una partecipazione ridotta a consenso necessario e una costante minaccia in atto?
L’errore di restare fermi, scrive Pietro Ichino, criticando chi ha messo in discussione quanto si sta imponendo in Fiat: ma se non si resta fermi, converrà pur chiedersi dove si sta andando?.

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