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I crocevia della partecipazione.

di Luca Mori. / scritto il 06-11-2006

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La Regione Toscana ha promosso una serie di incontri in vista di una “legge regionale per la partecipazione dei cittadini” (i materiali sono consultabili on line sul sito www.regione.toscana.it/partecipazione) e il 23 ottobre, nell’Aula Magna Storica dell’Università di Pisa, si è tenuto un seminario a questo proposito. Desidero comunicare agli amici di Polemos alcuni dei temi dibattuti il 23 ottobre, poiché riguardano l’importante nesso democrazia-comunicazione-conflitto-cittadinanza.
L’Assessore regionale alle Riforme istituzionali, Agostino Fragai, ha ribadito alcune idee di fondo già emerse in precedenti occasioni: la legge non potrà né dovrà prescrivere pratiche, in quanto queste andranno invece immaginate e sperimentate nei contesti locali. La legge fornirà piuttosto una cornice e un quadro di “incentivi” alla sperimentazione di pratiche diffuse sul territorio. Fragai ha avanzato due proposte: la certificazione del “tasso di partecipazione” delle decisioni da parte delle Pubbliche Amministrazioni che vogliano accedere a finanziamenti regionali e la necessità di destinare alla voce “partecipazione della cittadinanza” una quota dei finanziamenti relativi a progetti pubblici di rilievo. All’obiezione secondo cui una maggiore partecipazione dei cittadini comporterebbe ritardi e confusioni nell’attività dell’amministrazione pubblica, Fragai ha risposto che si tratta di una percezione paziale e distorta, in quanto molto spesso è vero il contrario: decisioni prese senza la partecipazione della cittadinanza possono incontrare opposizioni e proteste insostenibili che fanno naufragare i progetti o ne ritardano lo svolgimento, con inutile dispendio di tempo e risorse. In altri termini, è vero che la partecipazione può far emergere conflitti che richiedono il tempo e le competenze per l’elaborazione pubblica, ma è parimenti vero che la partecipazione può diventare uno strumento di “prevenzione” rispetto alla frequente conflittualità di ritorno (da quella della protesta a quella della sfiducia diffusa nell’azione delle P.A.). Questioni senz’altro intricate su cui riflettere. Non sembra comunque reggere l’assunto implicito nell’intervento del Prof. Raimondo Cubeddu, secondo cui la partecipazione e la democrazia deliberativa presuppongono necessariamente, per “funzionare”, l’omogeneità dei deliberanti: se si immaginano le pratiche di partecipazione come “cornici per l’elaborazione pubblica del conflitto”, come mi ha suggerito Ugo Morelli, quelle pratiche diventano significative proprio in quanto esplicitano ed affrontano le ineliminabili disomogeneità, presenti peraltro a tutti i livelli, compreso quello degli amministratori.
Per arrivare a tanto, tuttavia, occorre pensare entro un’epistemologia adeguata alla complessità dei temi in gioco. L’intervento di Alfonso Maurizio Iacono è stato in questo senso decisivo, sottolineando alcuni punti critici: (1) la necessità di moltiplicare e aprire i rapporti tra le istituzioni, ad iniziare da quelli tra Università (o ricerca universitaria) e Amministrazioni Pubbliche; (2) la necessità di non fingere di non vedere le diffuse disuguaglianze dovute alla distinzione tra cittadini e non cittadini; (3) l’importanza dell’apprendimento, a tutti livelli, qualora non ci si accontenti di una democrazia referendaria o plebiscitaria in cui la partecipazione è ridotta alla scelta dell’alternativa sì/no. Da un lato, occorre trovare un intelligente equilibrio tra regole, diritti di cittadinanza e partecipazione; dall’altro, occorre investire in formazione e apprendimento, sia per i cittadini che per gli amministratori.
Roberto Esposito, ricostruendo il significato della nozione di communitas, ha distinto le logiche del “donare parte di sé”, del partagé francese, da quelle dell’immunitas, che comporta il geloso mantenimento di situazioni di privilegio. La domanda allora è: quanta “sovranità” le pubbliche amministrazioni sono davvero disposte a “cedere” nei processi di partecipazione? E come dev’essere ripensata la stessa nozione di “sovranità” per capire ciò che ci mette a disagio nella democrazia contemporanea? Di che democrazia si tratta?
La democrazia rimane una tecnica, un insieme di regole per la distribuzione del potere: dunque attivare processi di partecipazione comporta anche il discutere le metaregole che presiedono agli usi ormai abituali della tecnica democratica. Questa è una delle chiavi con cui ritengo si possa interpretare anche l’esigenza di un cambiamento radicale dell’agenda politica, sollevata in altre occasioni da Ugo Morelli. Per questo credo che non possano essere disgiunte la sperimentazione delle pratiche sui territori e la concentrazione sui processi di formazione e apprendimento, rivolti ai cittadini e agli amministratori. C’è molto da apprendere e molto da disapprendere, per ripensare regole e metaregole. C’è molto da immaginare, perché l’inclusione nelle pratiche di partecipazione non sia solo di facciata.