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Parlamento e svolta cesaristica della democrazia di massa: una lezione ancora attuale di Max Weber

di Luca Mori / 24.04.2013 / scritto il 19-05-2015

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Tra il 1918 e il 1919 Max Weber elaborò due celebri interventi sulla politica, da rileggere a quasi un secolo di distanza per interpretare alcune caratteristiche tendenze, contraddizioni ed impasse delle democrazie contemporanee. Mi riferisco a Parlamento e governo (1918) e alla conferenza intitolata Politica come professione, tenuta il 28 gennaio 1919 [cito da M. Weber, Parlamento e governo, a cura di F. Fusillo, Laterza, Roma-Bari 2002; Max Weber, La scienza come professione, La politica come professione, trad. it. di H. Grünhoff, P. Rossi, F. Tuccari, Einaudi 2004].

Il contesto in cui Weber scriveva non è commensurabile con quello attuale: la Germania usciva drammaticamente dalla prima guerra mondiale scontando l’eredità di Bismark, la cui leadership era stata incapace di coltivare successori all’altezza delle responsabilità politiche ed anzi aveva condotto alla «nullità del parlamento e dei politici di partito» (Parlamento e governo, p. 12), mentre la nazione nel suo insieme appariva «senza la minima educazione politica» e «senza la minima volontà politica, abituata al fatto che il grande uomo di stato che stava al suo vertice si occupasse per lei della politica» (p. 20).

Weber si interroga sul ruolo del sistema parlamentare nelle democrazie di massa, contrassegnate da un ineliminabile «risvolto “cesaristico”» (p. 53) e da un «principio del piccolo numero», secondo il quale la «superiore capacità di manovra di piccoli gruppi dirigenti» arriva a dominare l’agire politico. Accade che, anche in un parlamento attivo, «[t]utta la gran massa dei deputati funge soltanto da seguito per l’unico leader o per i pochi leaders che formano il gabinetto, e ubbidiscono loro ciecamente finché essi hanno successo. Così deve essere» (p. 53).

Eppure, il parlamento e il partito dovrebbero essere anche il luogo per la “lotta” politica e per il reclutamento degli alleati, una sorta di palestra per riconoscere e selezionare capi all’altezza delle circostanze. Quale parlamento è necessario affinché ciò sia possibile? Scrive Weber: «[…] non un parlamento che tiene discorsi, ma soltanto un parlamento che lavora può costituire il terreno sul quale crescono e, attraverso la selezione, compiono la loro ascesa uomini di qualità di capo autenticamente politiche e non meramente demagogiche. Ma un parlamento che lavora è un parlamento che controlla continuamente l’amministrazione collaborando con essa. Prima della guerra ciò da noi non esisteva. Dopo la guerra, però, il parlamento deve diventare questo, oppure avremo la solita miseria. Di ciò si dovrà parlare adesso» (p. 55).

La democrazia di massa si caratterizza per la diffusione di «mezzi demagogici di massa» e per una «svolta cesaristica nella selezione dei capi» (p. 107). Weber precisa che non è la massa a generare il capo, poiché accade l’inverso: «non è la “massa” politicamente passiva che genera da sé il capo, ma è il capo politico che si acquisisce il seguito e conquista la massa attraverso la “demagogia”» (p. 115): la demagogia del capo sfrutta ed accresce la «forte prevalenza di elementi emotivi nella politica», il fatto che la massa «pensa soltanto fino a domani», «esposta agli influssi puramente emozionali e irrazionali del momento» (p. 117).

Date queste premesse, le commissioni parlamentari e più in generale le «rigide forme giuridiche della vita statale» diventano cruciali affinché le persone cesaristiche siano messe alla prova e affinché «non vengano scelte in modo puramente emotivo, cioè unicamente in base alle qualità “demagogiche” nel senso cattivo della parola». Nella conferenza intitolata Politica come professione (dal libro citato, pp. 45-121) troviamo una precisazione: il capo politico come demagogo nasce in Occidente e, anche se la parola ha assunto un sapore sgradevole, fu Pericle il primo ad essere chiamato così (p. 74).

Nelle democrazie di massa contemporanee diventa cruciale – al demagogo e ai partiti – la disponibilità di una macchina organizzativa per competere sul terreno del mercato elettorale (p. 80): «Diviene infatti capo soltanto colui che ha dietro di sé la macchina, anche a dispetto del parlamento. La creazione di tali macchine significa, in altre parole, l’avvento della democrazia plebiscitaria» (p. 84)

Nei partiti e nelle amministrazioni l’atteggiamento verso il capo è ambivalente. I funzionari e il seguito «si aspettano soprattutto che l’efficacia demagogica della personalità del capo nella lotta elettorale porti al partito il più possibile voti e mandati, e quindi potere, e attraverso di esso la possibilità per i suoi seguaci di ottenere per sé lo sperato compenso» (p. 84). Per questa via, i parlamentari, con poche eccezioni, «non sono altro che un gregge di votanti ben disciplinati» (p. 89). Da qui, tra l’altro, la «proletarizzazione spirituale» del seguito (p. 99). Accade però che i notabili del partito covino per lo più «risentimento contro il demagogo in quanto homo novus» (p. 85).

Max Weber, pensando anzitutto al contesto in cui parlava e scriveva, vedeva solo un’alternativa: «Ma vi è soltanto questa scelta: o una democrazia subordinata a un capo e organizzata mediante la “macchina”, oppure una democrazia senza capi, vale a dire il potere dei “politici di professione” senza vocazione, senza le intime qualità carismatiche che per l’appunto fanno un capo» (p. 99). Per questa ragione, pur consapevole della possibilità di una «dittatura che si fonda sullo sfruttamento dell’emotività delle masse» (p. 90), riteneva che fosse necessario uno sfogo al bisogno di capi, contro i vincoli della burocrazia e dei funzionari che di fatto governavano senza vocazione e senza ideali. Per questo, intervenendo sulla futura forma costituzionale della Germania, optò per un capo – un Presidente del Reich – eletto per plebiscito e non dal Parlamento, non esposto ai vincoli e alle collusioni che gli sarebbero derivate dall’elezione parlamentare.

I termini del problema, oggi, sono profondamente cambiati. Sono state introdotte numerosi termini alternativi per dar conto delle “mutazioni genetiche” della democrazia, nuove varianti di quella che Weber avrebbe definito democrazia cesaristica o plebiscitaria. Le alternative sembrano complicarsi e sovrapporsi: prevale la possibilità di una democrazia subordinata a capi, ma anche a capi senza vocazione nel senso di Weber, disponibili ad operare le scelte cambiando idea e priorità in base ai favori del momento, con il supporto di una “macchina” a finanziamento pubblico o privato che si è fatta sempre più costosa e raffinata. Il Parlamento continua a non essere il luogo dell’elaborazione del conflitto e della ricerca di alleanze. Forse lo sono, in alcuni casi, le commissioni parlamentari. Ma il Parlamento viene spesso rappresentato e vissuto come il luogo del tradimento o come il luogo in cui si formalizzano decisioni prese altrove. Anche i candidati capi emergono altrove: ambiscono ad esserlo funzionari, notabili e come abbiamo visto, quando ne hanno l’occasione, molti “tecnici”; intanto alcuni annunciano con convinzione una democrazia senza capi resa possibile dal Web (è la prospettiva della «democrazia liquida» evocata recentemente anche in Italia). Restano indistricati, tanto cruciali per la qualità della democrazia, quanto abitualmente evitati, due nodi segnalati da Max Weber un secolo fa: (1) quello della selezione di una leadership responsabile all’interno dei partiti, nelle commissioni e nelle decisioni di un parlamento adeguatamente attivo e (2) quello dell’educazione politica tanto dei politici quanto degli elettori.