base

home/conflict now

Cerca:

I simboli che dividono.

di Luca Mori. / scritto il 25-09-2006

torna indietro

La lezione tenuta da Benedetto XVI a Regensburg, il 12 settembre 2006, voleva promuovere nell’intenzione del relatore «il dialogo franco e sincero nel rispetto reciproco» tra le diverse religioni, ma ha scatenato polemiche e proteste tra i Musulmani in Europa e dal Pakistan all’India, dall’Iran al Marocco, dall’Egitto alla Palestina, dall’Iraq alla Turchia. Il Gran Muftì di Turchia trova nel discorso «un atteggiamento presuntuoso, viziato e arrogante di una persona che sa di avere dietro di sé il potere economico dell’Occidente».
Raramente quello che voleva essere un appello al dialogo è riuscito a suscitare tanta discordia. C’è chi sottolinea che il Papa abbia in realtà voluto sottolineare soltanto la centralità della ragione nella fede. Già: ma in quale fede? Magdi Allam deplora l’atteggiamento dei Musulmani che, contestando il discorso del Papa, negano la verità storica del ruolo che la violenza ha avuto nell’espansione dell’Islam. Ma con quale parzialità di prospettiva, in quale contesto e “da quale pulpito” è stato denunciato il nesso religione-violenza? Con quali premesse e implicazioni implicite?
Giuliano Ferrara sul Foglio e Michele Brambilla su Libero, quotidiani che costituiscono assieme a Il Giornale i punti di riferimento fissi della rassegna stampa di Radio Maria, celebrano il connubio ragione-fede nel cristianesimo versus l’Islam e fanno di Ratzinger il portavoce dell’identità occidentale, il rappresentante dell’ultima istituzione universale dell’Occidente, baluardo contro le ibridazioni tra culture incompatibili; il secondo annuncia persino ai suoi lettori che le reazioni al discorso del Papa sono la dichiarazione di guerra «di gran parte dei capi spirituali islamici contro la Chiesa cattolica, anzi contro tutti i cristiani del mondo». Si è trascurato che l’interlocutore di Manuele II Paleologo insisteva a sua volta sulla mesotes di aristotelica memoria: essenziale almeno quanto il logos per elaborare il conflitto.
Intanto a Radio Maria si rilancia sulla «superiorità soggettiva e oggettiva della fede cristiana (cattolica) su tutte le altre». C’è chi ritiene che il comune riferimento alla trascendenza potrebbe essere il motivo per un mutuo riconoscimento tra le diverse appartenenze religiose. La conciliazione sarebbe la conseguenza di una disposizione a ritrarsi: in quanto riguarda questioni ultime sulle quali nessuno dovrebbe presumere di pronunciarsi definitivamente, il rinvio alla trascendenza istituirebbe uno spazio di condivisione tra gli uomini, mai perseguibile sul piano delle questioni “penultime” nella logica dell’immanenza. Purtroppo non è così. Non è così perché il rinvio alla trascendenza poggia su simboli profondamente intrisi di volontà, aspirazioni, ansie, gelosie e rivendicazioni troppo umane. La storia attesta che il comune rinvio alla trascendenza o all’esigenza di un’etica normativa fondata su valori assoluti è ben lungi dall’essere condizione pacificante di condivisione.
Scontiamo l’introiezione secolare di epistemologie e di concetti inadeguati alla complessità delle nostre relazioni. Scontiamo la cedevolezza agl’incantamenti dell’universalizzazione e della semplificazione che contrassegna la fisiologica e nomotetica volontà d’ordine di Homo sapiens: è l’effetto collaterale e costituente dell’autoelevazione semantica.


(Luca Mori)