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Quando la religione (dell'altro) spiega tutto.

di Antonio Castagna. / scritto il 02-05-2006

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Piazza Cavour a Torino è in pieno centro. È un quartiere benestante, che confina con altri quartieri benestanti del centro, e verso la stazione di Porta Palazzo con una zona abitata da una tipologia mista, immigrati meridionali, immigrati extracomunitari, studenti, ma anche borghesi.
La piazza è occupata da un giardino dove le sere di primavera e d’estate, quando il sole è basso, si ritrovano in tanti, padroni di cani che parlando dei loro animali hanno fatto amicizia tra loro, cani che familiarizzano con gli altri cani, famiglie con bambini, mamme con bambini, bambini in bici, bambini sui pattini, preadolescenti che tirano calci a un pallone, studenti intenti nella lettura di un libro, studenti impegnati a fare amicizia con altri studenti dell’uno e dell’altro sesso, anziani soli, anziani in coppia, vecchi travestiti amici dei cani e dei loro padroni. Tutto sommato è un paesaggio interessante e piacevole. A parte la merda dei cani e l’arroganza dei loro padroni che pretendono di lasciarli andare senza guinzaglio anche quando si tratta di rotwailer, mansueti ben inteso, ma dalla faccia feroce.
Il 17 aprile, giorno di Pasquetta, il sole sta calando dietro i palazzi ottocenteschi che circondano la piazza, e mentre mi avvio alla mia panchina assolata a leggere, mi imbatto nella seguente scena: un gruppo di preadolescenti, saranno cinque o sei, in pantaloncini, con le facce arrossate dal gioco del pallone, di evidente origine, per lineamenti e per accento, araba, seguono una giovane coppia, italiana, che si sta allontanando dalla piazza. Capisco in seguito che stanno prendendo in giro la ragazza. Forse fanno allusioni di tipo sessuale, forse no, io li vedo nel momento in cui il fidanzato, evidentemente infastidito chiede alla ragazza di allontanarsi, con gesto da maschio che dice ora ci penso io, e si rivolge al più esagitato del gruppo, che è anche il più basso, e lo apostrofa chiedendogli se dire certe cose gli è permesso dalla sua religione, “tu pretendi che noi rispettiamo la tua religione e la tua religione ti permette di fare e dire queste cose?” Continua chiedendogli cosa farebbe sua madre se sapesse che si comporta così ecc. Che c’entra, mi chiedo, questa storia della religione? E che c’entra la religione con quello che potrebbe dire sua madre? Fatto sta che il gruppo di ragazzini si divide, tra chi discute con il ragazzo italiano e chi uscito dal gruppo comincia a ridere del riferimento alla madre. C’è un po’ di schiamazzo perché chi ride fa confusione e si agita, intanto il ragazzo arabo preso a bersaglio è ammutolito, guarda con aria di sfida l’italiano, continua però a subire il suo inatteso, evidentemente, attacco verbale. A quel punto mi allontano, la situazione sembra stabilizzata, non si notano avvisaglie di escalation e infatti di lì a poco ognuno andrà per la sua strada.
L’episodio in sé è forse poco rilevante. I ragazzini arabi erano molesti e il ragazzo italiano, poco più grande di loro, ha ritenuto opportuno invitarli a smettere. L’ha fatto con fermezza e argomentando. Quello che mi ha colpito è però il contenuto degli argomenti. Chi gliel’ha detto qual era la religione dei ragazzini? E cosa c’entra? Possibile che quando si tratta di arabi, all’immagine dell’adolescente brufoloso, aggressivo, goffo e animato da una carica sessuale straripante, si sovrapponga la mortificante immagine dell’integralista islamico chiamato ad adeguarsi ai più severi precetti dell’Islam e della mamma? Ne viene fuori una specie di macchietta, un macinato misto di stereotipi e di immaginari incollati senza alcun criterio formale e disponibili a qualsiasi uso.
Se un episodio come quello narrato è possibile è perché, credo, il discorso religioso è filtrato nella percezione comune diventando infinitamente manipolabile, buono per spiegare tutto. Qualsiasi contrasto che coinvolga persone di origine araba, allora, finisce per confermare lo stereotipo, l’altro ne esce banalizzato, chiuso in un angolo in cui qualsiasi differenza si perde e resta a disposizione solo la conferma e la ripetizione.
La sera precedente, a questo proposito, mi aveva molto colpito il commento di uno dei vecchi travestiti presenti in piazza. A un certo punto un bimbo africano di non più di due anni, ha abbandonato in lacrime la sua bici con le rotelle per correre dalla mamma alla vista di un rotwailer nero che si era avvicinato per annusarlo. La padrona a quel punto era stata convinta da diversi occupanti la piazza, me compreso, che era meglio tenerlo al guinzaglio, che così grande e grosso poteva fare paura. Il vecchio travestito, amico della donna, commentando l’episodio, aveva spiegato alla signora che è anche una questione di razze. Certo, avevo pensato, è più raro che un bambino abbia paura di un pechinese, neanche avevo finito di pensarlo che il discorso era proseguito: “Gli arabi e i cinesi sono razze che non amano i cani. Per questo forse, il bimbo aveva avuto paura. Non ci sono abituati”.
L’aspetto agghiacciante dei due episodi descritti è proprio nell’assenza di un discorso apertamente razzista. Anche nel secondo caso, il commento del travestito, a parte l’uso della parola razza, voleva semplicemente essere di tipo esplicativo, per fare capire alla signora del rotwailer la situazione. Quello che veramente colpisce è il modello di ragionamento che presentano, fatto di stereotipi disponibili a essere continuamente confermati e rinforzati, finendo per costituire il terreno favorevole, quando malauguratamente dovessero presentarsi le occasioni, perché si sviluppi un discorso apertamente razzista. In quel momento il conflitto diventerebbe semplicemente impossibile, mentre forse siamo ancora in tempo per imparare a riflettere sui nostri stessi stereotipi, su quelle semplificazioni del reale, necessarie perché forniscono mappe di pronto uso, ma allo stesso tempo pericolose quando spingono tutti in un vicolo cieco. Anch’io del resto, sono finito nello stesso vicolo cieco, continuando a sottolineare che l’amico della padrona del cane è un vecchio travestito, ho lasciato trapelare il mio stupore per il fatto che una minoranza possa esercitare la stessa involontaria discriminazione nei confronti di un’altra minoranza arrivata per ultima a occupare lo spazio delle marginalità. Per quale ragione, infatti, le minoranze di tutto il mondo dovrebbero essere solidali tra loro?

(Antonio Castagna)