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Giuseppe Varchetta, Trame di bellezza. Individuo, organizzazione, progettualità

Guerini e Associati, Milano 2011.
Recensione di Luca Mori.



Il libro nasce da un’immagine trovata per singolare coincidenza e con stupore al margine di una foto: il dettaglio inizialmente non visto, comparso durante lo sviluppo, è quello di un angelo proteso al volo, sopra le parole “è possibile”.

La combinazione tra quelle parole e l’immagine diventa il punto di partenza per una riflessione sulla bellezza, scandita in cinque tappe: “Vivere il presente”, “Il terzo stato”, “Conflitto estetico”, “Auto-tradimenti”, “Strategie di bellezza”. Come l’autore dichiara nella Prefazione, nei contenuti e nella costruzione stessa del libro sono presenti suggestioni di Luigi Pagliarani: l’attenzione al dettaglio marginale e alla coincidenza che interrogano chi sa riconoscerli e meravigliarsene, l’affidamento alla parola poetica per pensare le trame abissali della bellezza, particolarmente in relazione a quella che lo stesso Pagliarani aveva teorizzato come terza angoscia o “angoscia della bellezza”.

La bellezza ha a che fare con le relazioni ed il possibile: «“Bellezza” infatti è una possibilità e non una realtà costituita e contiene in sé un presagio di fallimento e come tale è traguardo sovente disertato per il rischio d’ansia da esso presentificato» (p. 13). La bellezza si manifesta come presagio di una pienezza non afferrabile: poiché eccede la possibilità di essere posseduta, non essendo qualcosa da possedere come non lo sono le relazioni, essa non colma la mancanza a cui risponde come il cibo o la bevanda “colmano” il vuoto provvisorio che genera la fame e la sete. Esponendo al rischio del fallimento, della negazione, della mancata corrispondenza, la sfida della bellezza chiama ad una relazione coraggiosa con il proprio limite: c’è come un ombra di terrore ad accompagnare la bellezza – il terrore che accompagna la percezione di poter perdere qualcosa che non si può comunque afferrare, ma della cui perdita si può soffrire. Se l’esperienza estetica rende accessibile l’ambiguità a cui espone la bellezza, forse è l’altezza della sfida cognitiva ed emotiva necessaria a tale accesso (con aspetti variabili sul piano individuale e della specie) che determina il prevalere della reazione anestetica: reazione che prende corpo in condotte di vita, comportamenti, atteggiamenti relazionali chiusi alla sfida della bellezza e confinati nello spazio ristretto degli stereotipi che consentono di non vedere, o di dimenticare, l’autotradimento delle proprie possibilità. Si può in tal senso generalizzare ciò che Varchetta scrive nel paragrafo L’ombra di un’esistenza possibile, commentando l’episodio Diana, del film “Nove vite da donna” (R. Garcia, USA, 2005): «La nostra realtà, quella che ci siamo costruiti con le nostre mani, pezzo per pezzo, palpito per palpito, è spesso la stratificazione di falsificazioni con le quali abbiamo iniziato sin dall’inizio a tradirci e a causa delle quali noi in realtà non siamo ancora nati del tutto» (p. 86). E ancora: «Accettare la sfida estetica e quindi la dimensione emotiva di ogni esperienza presentifica un sentimento di pienezza e, contemporaneamente, di conseguente angoscia per le infinite prospettive emergenti, coesistente con un’angoscia dell’incertezza e del vuoto. Si fugge dalla relazionalità sia verso se stessi che verso l’Altro, nella presunzione di poter uncinare il segreto di un’esistenza appagante da un qualcosa di autosufficiente e, soprattutto, del tutto indipendente» (p. 89).

Seguendo l’esempio di Giuseppe Varchetta, potremmo approfondire alcuni aspetti della questione
partendo da due citazioni, tratte in questo caso dal De rerum natura di Lucrezio.

[…] et saepe usque adeo, mortis formidine, vitae

percipit humanos odium lucisque videndae,

ut sibi consciscant maerenti pectore letum

obliti fontem curarum hunc esse timorem […]

E spesso gli umani, per paura della morte, sono presi a tal punto

dall’odio della vita e della vista della luce

che con il cuore in lutto si condannano a morte da soli

dimentichi che l’origine delle preoccupazioni è precisamente questo timore

[LUCREZIO III 79-82]

Pensiamo alla “morte” di cui parla Lucrezio sia in senso letterale, sia in senso metaforico: la morte di chi abbandona il mondo dei viventi e la “morte” di chi, vivo, non si decide o non riesce a nascere, autotradendosi; la morte di chi rinuncia a cogliere la sfida della bellezza per il presagio di poter fallire e per il timore di arrivare a perdere più di quanto può raggiungere seguendo la propria tensione ad una pienezza che appare inafferrabile ed eccedente. Lucrezio scrive di una paura della morte, utilizzando il latino formido, che richiama l’idea di un’apparizione o di una visione confusa che terrorizzano: proprio questa paura può indurre a vivere “con il cuore in lutto” e quindi, di fatto, può indurre colui che non vuole morire a darsi la morte da sé. La morte di chi, giorno dopo giorno, temendo la morte, finisce con l’ostruirsi da sé le vie per accedere alle possibilità della vita.

La sfida della bellezza è vivibile soltanto camminando su un filo teso tra il presagio di una pienezza

che eccede e il sentimento di una mancanza che non è colmabile. Come l’esperienza del sublime, pone l’uomo di fronte a paesaggi che meravigliano e al tempo stesso sconvolgono, che la mente abbraccia sentendosene abbracciata: in cui il “possedere” (anche soltanto con lo sguardo) è al tempo stesso un sentirsi sopraffatti e posseduti.

Ecco un altro brano da Lucrezio:

Cibo e bevande si assumono dentro il corpo

e sono in grado di occuparne determinate parti,

cosicché la fame e la sete sono facilmente placate.

Ma dal bel viso e dal bell’aspetto di un essere umano

nulla si dà al corpo da godere se non immagini

impalpabili; come misera speranza rapita spesso dal vento.

Come chi nel sogno desidera bere e non trova acqua

che possa spegnere il fuoco che consuma le membra

e invano insegue immagini d’acqua e resta assetato

anche se sta bevendo nel bel mezzo di un torrente impetuoso,

così in amore Venere si prende gioco degli amanti con immagini

e gli amanti non posso saziare i loro occhi

per quanto fissino il corpo amato

né possono portarsi via nulla dalle membra

che essi esplorano tremanti con mani errabonde.

[LUCREZIO IV 1091-1104]

Lucrezio introduce qui il tema dell’immagine, tanto caro a Giuseppe Varchetta, come testimonia un altro libro uscito nel 2011, Istanti (Marsilio, Venezia: vedi anche www.giuseppevarchetta.it). Nel brano di Lucrezio, l’immagine appare essenziale nella relazione su cui si fonda l’esperienza della bellezza: come elemento intermedio tra mondo interno ed esterno, l’immagine porta al limite la tensione alla bellezza e la rende al tempo stesso sostenibile, rendendo possibile un rapporto nel momento stesso in cui segnala la possibile perdita, la fugacità, la persistenza di una mancanza non colmata. Probabilmente gran parte del presente e del futuro di Homo, come individuo e come specie, dipende da come saprà elaborare i conflitti aperti dall’esperienza ambigua della bellezza.


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