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Gustavo Zagrebelsky, Sulla lingua del tempo presente

Einaudi, Torino 2010.
Recensione di Luca Mori.


L’agile libro di Gustavo Zagrebelsky dedicato alla lingua del tempo presente (Lingua Nostrae Aetatis) aiuta a comprendere perché, come scriveva Kelsen, «l’educazione alla democrazia diviene una delle principali esigenze della democrazia stessa» (Essenza e valore della democrazia, Il Mulino, Bologna 2010, p. 139).

Le tesi di fondo del libro, sviluppate con argomentazioni incalzanti ed esempi, si sviluppano a partire dall’idea secondo cui gli usi del linguaggio e il lessico prevalente nella vita pubblica danno forma al pensiero e ai sentimenti: quando le parole e le locuzioni utilizzate per parlare dei temi e degli attori della politica veicolano stereotipi e finiscono per imporsi in quanto ripetute e non problematizzate, quando le parole e le locuzioni si diffondono non perché se ne sia dibattuto e condiviso il senso, bensì per accettazione passiva, la qualità del consenso democratico si abbassa al livello dell’adesione “plebea” agli stereotipi.

Tale consenso, tipico dei sudditi, è osservabile nelle democrazie contemporanee, anche se generalmente si tende ad associarlo al mondo del Grande Fratello di 1984, al Fascismo e al Nazismo, dove «la ripetizione continua e ossessiva di medesimi stereotipi, i toni e i ritmi studiati ad arte potevano mutare il valore delle parole e trasformare pensieri e sentimenti [...]» (p. 5).

L’analisi di Zagrebelsky, rivolta all’Italia degli ultimi vent’anni, illustra gli assunti impliciti e le implicazioni dell’utilizzo politico di parole e locuzioni come «Scendere (in politica», «Contratto», «Amore», «Doni», «Mantenuti», «Italiani», «Prima repubblica», «Assolutamente», «Fare-Lavorare-Decidere», «Le tasche degli Italiani», «Politicamente corretto». Zagrebelsky, considerando il dibattito pubblico italiano, fa un’operazione analoga a quella di George Lakoff (Pensiero politico e scienza della mente) sugli Stati Uniti: mentre Lakoff mostra come i democratici statunitensi cadano spesso nei contorni di significato e nel modo d’inquadrare i temi (framing) tipicamente repubblicani, Zagrebelsky mostra come in Italia i partiti contrapposti a Berlusconi abbiano spesso assunto da lui parole chiave, metafore e atteggiamenti caratteristici. Due esempi su tutti: l’appello al «papa straniero» (p. 15) per conciliare le tormentate anime del PD avalla l’immagine dell’attesa salvifica di un uomo capace del miracolo, disposto a «scendere in politica» da un “fuori” non compromesso con la politica abituale, come Berlusconi nel 1994. Notevole è poi l’associazione tra la frase del discorso berlusconiano del 26 gennaio 1994 - «L’Italia è il Paese che io amo» - e il passaggio del manifesto fondativo del PD, datato 2007, in cui si legge: «Noi, i democratici, amiamo l’Italia». Simili dichiarazioni d’amore nel 1994 inauguravano lo stile berlusconiano di porsi rispetto allo spazio pubblico, mentre nel 2007 testimoniano soltanto l’avvenuta e forse inconsapevole introiezione di quello stile, che conduce alla mossa paradossale di contrapporsi berlusconianamente a Berlusconi. Commenta Zagrebelsky: «Questo è un esempio delle conseguenze perverse dell’imitazione nel campo della comunicazione politica. Ci si chiede come si possa essere stati così tanto, per dir di più, male accorti» (p. 21). Potremmo aggiungere che, se dietro quel brano del manifesto del PD ci sono stati consulenti di marketing e spin doctors utilizzati come ghost writers, il caso dovrebbe mettere in guardia chi voglia collocarsi a sinistra dall’affidarsi al marketing politico per definire il contenuto di manifesti e programmi: i risultati, oltre a non garantire l’ambita vittoria elettorale, finiscono spesso con l’essere grotteschi. Se invece la scelta della formulazione fu di un politico, c’è da augurarsi che tale politico si rimetta a studiare e prenda sul serio la lezione di autori come Lakoff e Zagrebelsky.

Negli anni del politicamente corretto, in cui «perfino la bestemmia è stata “sdoganata” [...] perché qualunque parola deve essere “contestualizzata» (p. 57), i «cittadini comuni, non esperti di cose politiche, sono trattati non come persone consapevoli ma sudditi, anzi come plebe». Si tratta allora, secondo Zagrebelsky, di liberarsi dal senso comune plebeo, «ritrovando l’orgoglio di comunicare tra noi parlando diversamente, non conformisticamente, seriamente, dignitosamente, argomentatamente, razionalmente, adeguatamente ai fatti» (p. 58).

L’impegno qui invocato è gravoso e si riferisce ad azioni complesse che non possono derivare spontaneamente dalla mera consapevolezza o dalla volontà di un certo “dover agire”; esse, piuttosto, possono essere soltanto l’esito inevitabilmente incerto di progetti di «educazione alla democrazia». Parte di tale educazione dovrebbero essere lo studio della retorica e l’analisi critica delle tecniche della propaganda, che a partire dagli anni Venti furono descritte sistematicamente in studi che mostrano come l’uso stereotipato delle parole e la ripetizione di locuzioni banalizzate e semplificate possano diventare una strategia deliberata di fabbricazione del senso comune plebeo, quel senso comune su cui così spesso poggia il consenso della maggioranza nelle democrazie contemporanee.

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