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D. Diderot, L’antro di Platone, a cura di Alfonso Maurizio

ETS, Pisa 2009
Recensione di Luca Mori.


Il libro inaugura la nuova collana ETS bifronti-piccoli libri di filosofia – diretta da Alfonso Maurizio Iacono e Giovanni Paoletti – che propone «opere da rileggere presentate con il testo originale a fronte», «libri doppi, tra il presente e la storia, il superficiale e il profondo, l’illusione e la verità». Oltre a questa traduzione di Diderot è uscito anche un testo di Durkheim a cura di Paoletti, Il dualismo della natura umana e le sue condizioni sociali.

Il testo qui tradotto è la singolare recensione di Denis Diderot al quadro Coreso e Calliroe di Jean-Honoré Fragonard, esposto al Salon di Parigi del 1765.

[il quadro è visualizzabile seguendo il link:
www.edizioniets.com/PopUp_FotoGallery.asp?ID=1744].

Recensione singolare quella di Diderot, poiché l’autore la scrive in forma di dialogo e, immaginando di rivolgersi all’amico Grimm, esordisce dicendo che gli è impossibile parlare del quadro: «sapete che non stava più al Salone quando l’impressione generale che suscitò mi spinse a recarmi lì» (p. 25).

Diderot prosegue raccontando all’amico una visione notturna, il sogno fatto dopo una giornata passata a guardare quadri e conclusa con la lettura di alcuni dialoghi platonici. Con questo espediente, il filosofo francese propone una rivisitazione della caverna di Platone e al tempo stesso descrive, come introdotto da una «sequenza cinematografica» (Iacono, Introduzione. Diderot, Platone, Fragonard, p. 10), il quadro di Fragonard.

Immaginando di aver sognato di essere in un antro come quello descritto da Platone, Diderot scrive:

«Mi parve di essere chiuso nel luogo chiamato l’antro di questo filosofo. Era una caverna buia. Ero seduto in mezzo a una moltitudine di uomini, di donne e di bambini. avevamo tutti i piedi e le mani incatenate e la testa fissata strettamente da stecchetti di legno così che ci era impossibile girarla. Ma quel che mi stupiva era il fatto che la maggior parte delle persone beveva, rideva, cantava senza dare l’impressione di essere impedita dalle loro catene, e voi, vedendole, avreste detto che quello era il loro stato naturale; mi sembrava persino che coloro i quali facevano un qualche sforzo per recuperare la libertà dei loro piedi, delle loro mani e della loro testa, erano guardati male, si attribuivano loro nomi odiosi, ci si allontanava da loro come se fossero infettati da una malattia contagiosa, e quando nella caverna si verificava un qualche disastro, non si perdeva mai l’occasione di accusarli di ciò. Equipaggiati come vi ho appena detto, avevamo tutti la schiena volta verso l’entrata di questo luogo di cui potevamo soltanto guardare il fondo tappezzato da una tela immensa.

Alle nostre spalle c’erano re, ministri, preti, dottori, apostoli, profeti, teologi, politici, bricconi, ciarlatani, artisti facitori di stupefacenti illusioni e tutta la genìa dei mercanti di speranze e di paure. Ognuno di loro era provvisto di figurine trasparenti e colorate che rappresentavano il loro rispettivo ruolo, e tutte queste figurine erano così ben fatte, così ben dipinte, in così gran numero e talmente variegate, che c’era di che offrire alla rappresentazione tutte le scene comiche, tragiche e farsesche della vita.

Come poi vidi, questi ciarlatani, che stavano tra noi e l’entrata della caverna, avevano dietro di loro una grande lampada sospesa, sotto la cui luce mettevano in mostra le loro figurine le cui ombre portate al di sopra delle nostre teste e ingrandendosi per strada andavano a fermarsi sulla tela stesa sul fondo della caverna per formarvi delle scene, talmente naturali, talmente vere che noi le prendevano per reali, e ora ne ridevamo a gola spiegata, ora ne piangevamo a calde lacrime […]» (D. Diderot, L’antro di Platone, pp. 26-27).

La principale novità, rispetto a quanto Platone aveva scritto in Repubblica, è il riferimento esplicito e dettagliato a tante categorie di «facitori di stupefacenti illusioni»: sullo sfondo, c’è una concezione dell’Illuminismo e del ruolo del filosofo nel confronto con i tanti ciarlatani che stanno tra l’entrata della caverna e i prigionieri, costruendo e proiettando le loro rappresentazioni.

Per quanto la messa in scena esercitasse il suo fascino, poteva accadere che tra la folla qualcuno avesse dei sospetti: c’era chi «scuoteva di tanto in tanto le sue catene e che aveva un fortissimo desiderio di sbarazzarsi dei suoi ceppi e di girare la testa; ma immediatamente ora l’uno ora l’altro dei ciarlatani che avevamo alle spalle si metteva a gridare con una voce forte e terribile: “Non girare la testa! Guai a chi scuoterà la sua catena! Rispetta i ceppi…”» (pp. 27-28). Ma Diderot rimanda a un altro momento – quando si tratterà di fare filosofia – la descrizione di «quel che accadeva a coloro i quali disprezzavano il consiglio delle voci, i pericoli che correvano, le persecuzioni che erano costretti a subire» (p. 29). Continua perciò, nel suo dialogo immaginario con Grimm, con la descrizione dell’«immensa tela» vista in sogno: su quella tela, egli dice di aver visto non un solo quadro, ma sei.

Quello effettivamente dipinto da Fragonard è l’ultimo della serie descritta da Diderot, la scena cruciale della storia raccontata da Pausania nel VII libro del Viaggio in Grecia, quando il sacerdote Coreso si suicida, offrendo la propria vita per salvare quella della bella vergine Calliroe, che lui stesso aveva compromesso, amante non corrisposto, rivolgendosi a Dioniso; l’ira di Dioniso, che accoglie le sue suppliche, aveva indotto i Calidoni a sacrificare una vita umana, quella appunto di Calliroe. Il quadro di Fragonard mostra Coreso, che si è appena pugnalato, nell’istante in cui il corpo resta sospeso prima di cadere, tra la vita e la morte. Diderot immagina e racconta i cinque quadri precedenti a questo, come cinque distinti frame di una pellicola, come se l’«immensa tela» di quadri in sequenza producesse l’effetto del teatro e descrivendo di fatto, ante litteram, il meccanismo cinematografico. Iacono segnala nell’introduzione (p. 15) un brano di Diderot molto significativo a questo proposito: «lo spettatore è a teatro come davanti a una tela, dove dei quadri diversi si succedono a catena» (De la poésie dramatique).

La recensione di Fragonard dà l’occasione per approfondire il tema dell’esperienza dello spettatore teatrale e ciò che questa può insegnarci, più in generale, sulle condizioni d’autonomia di uno spettatore di fronte alle rappresentazioni messe in scena dalle più varie tipologie di ciarlatani. Nell’esperienza dello spettatore teatrale descritto da Diderot c’è quell’«unione di credere e non credere» che Huizinga trovava nel gioco (Iacono, p. 11) e la «sospensione temporanea dell’incredulità» di cui aveva scritto Coleridge: «Diderot sta descrivendo il passaggio dal mondo della quotidianità al mondo del teatro, dove più fortemente si realizza la facoltà umana di attraversare mondi che stanno in relazione tra loro ma che nello stesso tempo sono chiusi» (Iacono, p. 11).

Ciò che più fa pensare è cosa significhi essere spettatori non «dominati dalla rappresentazione»: la pittura e il teatro avvincono e traslano lo spettatore in uno spazio paragonabile a quello del sogno ma che, avverte Iacono, non coincide col sogno. Perché l’unità di credere e non credere richiede un «atto consapevole», per quanto paradossale: l’atto consapevole con cui si entra nella finzione, il che è condizione per poterne uscire, pur essendosi “abbandonati” ad essa; condizione per poter esercitare la critica (Iacono, p. 13), che pure è sospesa nell’istante in cui si sospende l’incredulità.

Spettatore attivo è quello che attraversa mondi e vive in «mondi intermedi» mantenendo attiva la «coda dell’occhio», la capacità di voltarsi mantenendo la tensione che il credere e il non credere, tra la rappresentazione e ciò che ne è al di fuori, tra se stesso e gli altri spettatori (cfr. anche A. M. Iacono, Gli universi di significato e i mondi intermedi, in A. M. Iacono, A. G. Gargani, Mondi intermedi e complessità, ETS, Pisa 2005, pp. 5-39):

«Solo pochi, con la coda dell’occhio, vedono che, al di là, al di qua e di lato, oltre le pareti, vi è qualcosa che collega il mondo della rappresentazione con i mondi che stanno al di fuori. È in questo collegamento, nell’esperienza del passaggio da un mondo all’altro che il filosofo di Platone si incontra con quei filosofi di cui Diderot ha promesso di narrarci un’altra volta» (Introduzione, cit., pp. 13-14).


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