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Ugo Morelli, Incertezza e organizzazione. Scienze cognitive e crisi della retorica manageriale

Cortina, Milano 2009.
Recensione di Luca Mori.


C’è stato un tempo in cui il successo predittivo del paradigma meccanicista applicato alla fisica e alla cosmologia indusse all’idea di poter ridurre, descrivere e governare more geometrico anche le cose del mondo umano: l’enfasi sulla razionalità calcolante, l’assioma di linearità delle interazioni e il paradigma della macchina sembravano assicurare la gestione della certezza e la certezza del controllo. In questo quadro, l’incertezza costituiva di conseguenza una spiacevole eccezione, un fastidioso inconveniente, qualcosa da cui i modelli potevano prescindere come le formule del moto prescindevano dall’attrito, associando limpidamente termini come spazio, tempo, velocità e massa: il tutto come se l’attrito non esistesse, come se l’incertezza non fosse un tratto costitutivo del rapporto tra osservatore e campo d’osservazione, indispensabile all’esistenza di entrambi.

Di incertezza scriveva, già una ventina di anni or sono, Giuseppe Varchetta, nel suo contributo al volume Professione formazione dell’A.I.F. (Franco Angeli, Milano 1988 e sgg.), dove si legge tra l’altro: «la managerialità attraversa una vistosa crisi di incertezza, nella quale l’impresa vive un’inattesa esperienza di difetto e di mancanza, che le correnti interpretazioni della sua realtà economica e tecnologica non riescono a colmare» (p. 124). La combinazione tra l’«esperienza di difetto e di mancanza» e l’interpretazione difettosa di tale esperienza delineava addirittura una condizione di «doppia incertezza», interna ed esterna all’organizzazione: sembrava maturo il tempo per assumere consapevolmente le implicazioni di nuovi paradigmi e nuove metafore ispirati all’orizzonte epistemologico della complessità, facendo i conti con concetti come “sistema aperto”, “turbolenza”, “emergenza”, “entropia negativa”, “omeostasi”, “differenziazione”, “equifinalità” e così via. Ma come si afferma un nuovo paradigma? Proponendo l’esempio della figura-ambigua “lepre-anatra”, il celebre teorico delle rivoluzioni scientifiche Kuhn sosteneva che passare da un paradigma all’altro è come iniziare a vedere la lepre dove prima si vedeva l’anatra. Se integriamo questa considerazione con gli spunti del filosofo Ludwig Wittgenstein, abbiamo che il «vedere come» (seeing as) e il vedere aspetti non sono il mero esito di una nuova interpretazione, né dipendono esclusivamente dalla volontà di vedere. In altri termini: l’aspetto percepito prima del passaggio persiste e continua ad esercitare una sorta di costrizione sulla visione, anche perché attorno a quell’aspetto (attorno all’anatra vista prima della lepre o, per tornare al nostro tema, attorno alla fortunata metafora dell’organizzazione-macchina) si è sviluppata un’intera grammatica. Il libro di Ugo Morelli, concentrandosi su incertezza e organizzazione, affronta anzitutto questo nodo: la persistenza, nella retorica manageriale, di prassi e discorsi che tendono a rimuovere l’incertezza trascurando la complessità della vita organizzativa. A vent’anni dal citato articolo di Varchetta, sembra dunque che la sfida dell’incertezza sia ancora agli inizi, e c’è una singolare coincidenza con quanto Gianluca Bocchi e Mauro Ceruti hanno scritto riproponendo dopo vent’anni un’edizione del libro La sfida della complessità: anche questa sfida, appunto, è ancora agli inizi, non solo nel campo degli studi organizzativi.

Benché di razionalità limitata, di ambiguità e di sense-making si parli già dagli anni Sessanta e Settanta, e benché la sfida della complessità sia stata lanciata a metà degli anni Ottanta, Morelli evidenzia come l’«epistemologia implicita» della retorica manageriale sia ancora legata all’idea dell’equilibrio ingegneristico e del processo cognitivo «di tipo istruzionista e adattivo» (p. 22), cosicché si perde di vista la «dinamica emergente che genera le forme di vita organizzata».

La ricerca di «un paradigma interpretativo e operativo innovativo e appropriato alla contemporaneità» (p. XVII) dovrebbe poi aiutare a chiarire il dubbio se nel presente si sia di fronte «a un’estensione del modello classico anche ai fattori immateriali e soggettivi o a un’effettiva limitazione e parziale sostituzione» (ibidem). Le ragioni del dubbio in questione emergono chiaramente, ad esempio, quando Morelli prende in considerazione il costrutto di «comunità di pratica» e trova la persistenza di vecchi paradigmi anche dove si presume di essersene congedati: ne sono un esempio il rivolgersi dell’economia all’orientamento cognitivista degli studi sul mentale, che comporta la sostituzione dell’approccio neoclassico all’individuo-stratega isolato con una riproposizione dell’immagine della mente-calcolatore; oppure il cosiddetto congedo dal taylorismo, che sembra spesso inclinare ad un «taylorismo rivisitato» (pp. 33-34), impegnato ad assumere entro il precedente paradigma aspetti dell’interagire umano che non vi erano inclusi.

Nel quadro così delineato, risulta che il primo vincolo a cambiare è cognitivo (p. 80). Ispirandosi nuovamente a Wittgenstein, si potrebbe dire che c’è un’immagine dell’organizzazione che ci tiene prigionieri: essa è convincente forse perché è a prima vista perspicua; tutto appare lineare e prevedibile, in un’immagine che effettivamente è costruita dall’uomo; come insegna Wittgenstein, le rappresentazioni perspicue risolvono un’inquietudine iniziale rispetto al senso di figure che possono apparire come puzzle pictures: una volta trovato un ordinamento chiaro, costruito per simmetrie e linearità, l’immagine esercita però una costrizione (Zwang) sul vedere. Il problema si complica ulteriormente quando l’immagine si sostituisce alla cosa: mentre la vita dell’organizzazione è emergente, l’immagine dell’organizzazione è costruita dall’uomo, cosicché scambiare l’immagine con la cosa significa ritenere, più o meno implicitamente, che l’organizzazione sia in toto esito di una costruzione e quindi gestibile secondo il paradigma dell’equilibrio ingegneristico. Questo è un aspetto di un tema più ampio affrontato da Morelli, quello della reificazione: «trasformiamo le organizzazioni in un oggetto» (p. 47): a questo proposito, l’autore indica come possibile cautela epistemologica il riferimento alla biologia, alla paleoantropologia e alle neuroscienze, che hanno introdotto i concetti di “contingenza” e “riconoscimento” per studiare i loro oggetti “non reificabili”, ovvero per mantenere una postura non reificante nei confronti delle tracce su cui indagano.

Con spunti come questo passiamo al momento costruttivo del libro, che fa da contrappeso alla pars destruens dei paradigmi incapaci di assumere l’incertezza come «vincolo e possibilità di ogni relazione» (p. 7). Lo sforzo è duplice, in quanto riguarda la pensabilità di (a) un management non precettistico né prescrittivo, all’altezza della complessità, dell’incompletezza e dell’incertezza insite come vincoli e possibilità nella vita organizzativa, (b) e delle organizzazioni come landscapes e mindscapes, paesaggi esterni all’esperienza e interni alla mente degli attori (p. 7).

Appurato che i modelli incentrati sulla sequenza “comando-esecuzione-controllo”, nella loro pretesa di essere prescrittivi e predittivi, falliscono proprio nel relazionarsi alle «soggettività» impegnate «nella costruzione di senso e significato dell’esperienza lavorativa» e alle dinamiche emergenti nella vita organizzativa – in quanto queste dimensioni non si possono prescrivere, né è efficace tentare di farlo (pp. 49-50) – lo sforzo esplorativo e teorico di Ugo Morelli consiste nell’accompagnare alla critica della «prospettiva istruzionista nelle pratiche educative, formative e manageriali» (p. 57) un’indicazione di percorso per una scienza della «mente relazionale» e dei conflitti, applicabile all’azione manageriale e formativa nelle organizzazioni.

I nodi da considerare, per valutare come un modello di management e organizzativo sia in grado di confrontarsi con l’incertezza, sono elencati esplicitamente in apertura (pp. XVIII-XIX) e costituiscono i poli attorno a cui si articola l’esposizione del libro: la «capacità delle organizzazioni di contenere oggi i progetti di autorealizzazione individuale», la «cittadinanza che viene riconosciuta al conflitto», le forme di gestione del potere e dell’autorità; l’impatto della crisi dell’esperienza lavorativa su metodi e strumenti del management; l’impostazione del tema della qualità.

Dal momento che proprio relativamente a questi nodi si notano le lacune dell’esistente e i vincoli cognitivi che continuano ad alimentarle, si comprende l’importanza crescente che assume, nella seconda parte del libro, la questione della formazione: qui, del resto, non si tratta soltanto delle trasformazioni dovute ad esempio a un qualche cambiamento organizzativo, ma della necessità di una nuova rappresentazione complessiva dell’organizzazione, a fronte della resistente obsolescenza dei vecchi paradigmi. Il discorso verte pertanto sulla natura dell’azione formativa (pp. 101 sgg.), trattata senza toni da palingenesi nei suoi limiti cognitivi, affettivi e organizzativi, ma presentata come risorsa per cogliere il «fattore di flessibilità, di gioco, di vita» (p. 53) che l’incertezza può essere, riconoscendo e sviluppando generativamente la «relazione interdipendente tra senso del lavoro individuale» e «capacità produttiva delle organizzazioni» (p. 143).

Si tratta di una formazione non episodica, relativa più alle competenze relazionali che a quelle passibili di prescrizione. Evidenziando poi il paradosso dei tentativi di curare la razionalità con se stessa (p. 147) e l’incertezza degli stessi processi trasformativi, le ultime pagine sono dedicate ad un confronto con l’insegnamento del maestro Luigi Pagliarani e con la sua riflessione circa la «terza angoscia» o angoscia della bellezza: l’interrogativo, anche in questo caso, verte su ciò che possiamo e ciò che non possiamo vedere, su ciò su cui riusciamo a interrogarci e sugli interrogativi che sono per noi cognitivamente ed emotivamente impensabili. È, in altri termini, la stessa difficoltà di chi si dispone ad assumere l’incertezza come vincolo e possibilità costitutiva del proprio campo d’azione, tentando di apprendere a vedersi e ad agire con una grammatica all’altezza della propria complessità, cioè all’altezza della complessità delle relazioni che lo costituiscono. Ciò vale parallelamente per l’individuo e per le organizzazioni in cui le vite individuali si svolgono.

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