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George Lakoff, Pensiero politico e scienza della mente

2008, trad. it. di G. Barile, Bruno Mondadori, Milano, 2009
Recensione di Luca Mori.


Secondo George Lakoff, celebre studioso di linguistica e scienze cognitive, c’è una «vecchia idea di ragione, risalente all’Illuminismo, secondo la quale la ragione è conscia, letterale, logica, universale, sottratta alle emozioni, incorporea e funzionale agli interessi di chi la esercita» (p. 2): tale concezione non ci permetterebbe di capire nulla riguardo a processi e fattori alla base del consenso politico, che non è l’esito di calcoli consapevoli, di un soppesare e di un pattuire espliciti su condizioni e contenuti razionalmente definiti.
L’autore dichiara di aver iniziato a occuparsi di politica nel 1994, dopo essersi imbattuto in un rompicapo: «come progressista, non riuscivo a capire come facessero a stare insieme le principali posizioni conservatrici» (p. 92), tra cui il taglio delle imposte, la contrarietà all’aborto, ai matrimoni gay e al controllo sulla vendita delle armi da fuoco, la scarsa attenzione alla tutela ambientale e la difesa della tort reform, cioè di una norma «che limita la possibilità dei cittadini di citare per danno le grandi corporation». Il punto è: come stanno insieme le idee di chi si riconosce in queste linee politiche e, viceversa, quelle di chi non si riconosce in nessuna di esse?
Per affrontare questo problema alla luce delle più recenti indagini sulla mente, nel 2003 Lakoff aveva fondato a Berkeley un think tank di area democratica, il Rockridge Institute. Cinque anni dopo, nell’aprile 2008, comunicando la chiusura dell’istituto, lo studioso denunciava lo scarso interesse dei “progressisti” per gli aspetti cognitivi della politica (per la cognitive policy), conseguenza proprio della loro concezione desueta della ragione conscia, logica, letterale e spassionata.
L’istituto studiava i rapporti tra linguaggio e politica, in particolare i meccanismi attraverso cui le parole veicolano frames (“cornici”, schemi di interpretazione del mondo), generano associazioni e comportamenti, fissano credenze e preferenze. Le principali posizioni conservatrici, così come quelle repubblicane, sono tenute assieme da narrazioni, frames e grandi metafore, come quella che vede nel Presidente degli Stati Uniti un padre severo, rigido e puritano (repubblicana) o un padre benevolo e premuroso (democratica). Decisivo è il peso dell’inconscio cognitivo, cioè del fatto che – secondo una versione radicale della teoria – «il 98 per cento dell’attività mentale ha luogo senza che ne siamo consapevoli» (p. 3). Ci sono narrazioni, come quelle del “farcela da soli”, di “salvazione” o di “reinvenzione di sé”, con ruoli ricorrenti come quelli dell’Eroe, della Vittima, del Cattivo e degli Aiutanti, che sarebbero per così dire «fissate nei circuiti neurali del cervello», al punto da poter «essere attivate e funzionare inconsciamente, automaticamente, come per riflesso» (pp. 39-40). Così capita che vediamo i personaggi che calcano la scena politica in termini di narrazioni e associazioni e, «allo stesso modo vediamo noi stessi come se avessimo solo le scelte definite dai frame e dalle narrazioni culturali del nostro cervello» (ibidem). La ripresa di questi dispositivi narrativi, declinati di volta in volta in relazione ai personaggi in competizione per il consenso, presiede alla costruzione di frames emotivamente coinvolgenti e persuasivi, perché il radicamento cerebrale delle strutture drammatiche attraverso cui interpretiamo inconsciamente il mondo s’inserisce in una rete di percorsi che coinvolgono anche il sistema limbico, «la parte più antica del cervello in termini di evoluzione», in cui si trovano due «percorsi emozionali con due differenti neurotrasmettitori», il circuito della dopamina e quello della norepinefrina, collegati rispettivamente a sensazioni di felicità e soddisfazione e di paura, rabbia e ansia (pp. 31-32).
L’impatto delle narrazioni e delle cornici che le supportano diventa palese, secondo Lakoff, se si considerano casi concreti come la Prima guerra del Golfo: mentre la narrazione di autodifesa per il blocco degli oleodotti imputato a Saddam Hussein non bastò a rendere accettabile all’opinione pubblica l’idea di una missione di guerra in Iraq, la narrazione di salvazione nei confronti del Kuwait stuprato parve un motivo sufficiente. Nel caso della successiva guerra voluta da George W. Bush, fu la narrazione di autodifesa il perno su cui costruire la legittimazione dell’intervento: ciò fu possibile anche se il pomo della discordia, cioè gli arsenali nucleari segreti, erano un’invenzione. Del resto, c’era pur sempre il tema della cosiddetta esportazione della democrazia, altro slogan efficace nella narrazione di salvazione, che solo la presidenza di Barack Obama ha abbandonato.
Una volta coniate, messe in circolazione e ripetute, locuzioni come “esportazione della democrazia” condizionano il modo di dar senso agli accadimenti e veicolano non solo se stesse, ma gli impliciti che le sostengono: ad esempio, che la democrazia sia qualcosa di esportabile; che chi la esporta possegga la democrazia in forma “compiuta” come un prodotto collocabile sul mercato; che le relazioni e le società umane siano scenari regolati dagli stessi principi a cui può attenersi un meccanico quando, nell’officina, sostituisce il pezzo danneggiato di un’automobile con un altro. Un altro caso aiuta a chiarire le implicazioni del ragionamento di Lakoff: durante la prima Guerra in Iraq, l’espressione “missili intelligenti” faceva parte del più vasto tentativo di legittimare l’intervento militare dandone un’immagine “chirurgica” e quasi terapeutica.
La parte più riuscita del saggio, in effetti, è quella in cui si esamina l’uso conservatore delle parole e si mostra come tale uso proceda di pari passo con l’imposizione di frames: si parla di «immigrati illegali in luogo di datori di lavoro (o consumatori) fuori legge; guerra in Iraq, e non occupazione dell’Iraq; surge (crescita momentanea) in luogo di escalation; sostegno alle forze armate invece di sperpero del denaro dei contribuenti e così via» (p. 55). L’uso del linguaggio influisce su ciò che è pensato e pensabile. Se  accade che, invitando qualcuno a “non pensare a un elefante”, questi penserà inevitabilmente a un elefante, a maggior ragione ripetendo le locuzioni “esportazione della democrazia” e “missili intelligenti”, in una narrazione che le renda plausibili ed emotivamente desiderabili (tra l’altro perché s’intreccia alla narrazione sui giovani soldati eroicamente in guerra per il Paese e per la libertà), chi ascolta potrà finire col credere che esistano effettivamente “missili intelligenti”.
Lakoff è efficace anche quando illustra l’impatto al tempo stesso emotivo e cognitivo delle parole. Un esperimento mise a confronto due gruppi di studenti: agli uni fu chiesto di ricordare e descrivere un comportamento eticamente positivo nel loro passato, agli altri un comportamento negativo. Alla successiva richiesta di completare alcune parole, quelli che si erano concentrati su un comportamento non etico tendevano in misura maggiore a scrivere termini richiamanti l’associazione metaforica tra moralità e pulizia: ad esempio, in W _ _ H leggevano per lo più “wash” (“lavare”) e in S _ _ P “soap” (anziché, ad esempio, “step”, “stop” o simili). Le parole della politica richiedono associazioni più complesse, ma la logica è la stessa: se il termine sicurezza viene ripetutamente associato alle operazioni di polizia, all’area semantica del “controllare”, all’intervento dell’esercito, si perderà di vista il fatto che sicurezza può voler dire integrazione, garanzia generalizzata di diritti e vivibilità e così via.
Il fatto è che, negli Stati Uniti analizzati da Lakoff, i “progressisti” democratici cadono facilmente nei frames e nelle associazioni dei conservatori. Ciò è tanto più deleterio perché «gli Americani sono per la maggior parte, in un modo o nell’altro, biconcettuali. In altri termini, essi hanno modalità di pensiero sia progressiste sia conservatrici che si inibiscono reciprocamente; l’uso dell’una interrompe l’uso dell’altra. E ciascuna modalità di pensiero è neuralmente legata – ossia, si applica, a differenti aree di vita» (p. 135). Non mancano nel corso della storia casi di successful reframing da parte di neri, femministe e gay, ma sono processi lunghi e, quanto ai democratici, Lakoff ritiene che abbiano «troppa paura di dire» ciò che «credono realmente» e che consentirebbe loro di spostare il frame (p. 174).
In Italia accade qualcosa di analogo, anche perché c’è il problema di tenere insieme coalizioni composite ed estremamente frammentate, presidiando il centro o almeno non inimicandoselo. Così, ancora nelle campagne elettorali per le primarie alla segreteria del Partito democratico dell’autunno 2009, che vedevano competere Franceschini, Bersani e Marino, il segretario in carica presentava il PD come un partito intenzionato a parlare alla sinistra e al tempo stesso al centro. Il fatto è che in questo posizionamento bifronte poche narrazioni sono davvero convincenti e, al tempo stesso, si corrono i rischi dell’elaborazione provvisoria delle differenze: infatti Francesco Rutelli è uscito dal PD subito dopo, il che significa che c’era già troppo dissenso interno per costruire una narrazione effettivamente persuasiva per gli elettori incerti e poco motivati dallo status quo. Cosa che non è accaduta invece per il centro-destra che, a partire dal 1994, seppur con alterne vicende, è riuscito a tenere assieme anche partiti idealmente antitetici come la Lega Nord e Alleanza Nazionale. Lakoff chiederebbe: grazie a quali narrazioni e a quali frames? Sembrano scritte pensando all’Italia alcune pagine in cui Lakoff mostra come i democratici scivolino quasi senza avvedersene nel framing repubblicano: lo si potrebbe documentare, seguendo il suo esempio, per dibattiti nostrani sulla scuola e l’Università, sulla cultura, sull’immigrazione, sulla sicurezza, sullo “sviluppo” ecc.
I dibattiti televisivi sono un momento importante per studiare le strategie di framing. Ecco un esempio di analisi proposta da Lakoff:

«Il 2 giugno 2007, il dibattito presidenziale democratico era in onda sulla CNN. Il conduttore era Wolf Blitzer, un lupo nelle vesti di agnello, un conservatore che si atteggia a giornalista neutrale. Per tutta la durata del dibattito, Blitzer formulò domande usando frame conservatori. Alcuni candidati riuscivano a portare il frame sul loro terreno, ma troppo spesso cercavano di rispondere e si trovavano intrappolati in un frame conservatore. Questo portò a uno dei grandi momenti del dibattito politico in televisione.

BLITZER: Vorrei che alzaste la mano se credete che l’inglese debba essere la lingua ufficiale degli Stati Uniti

Barack Obama rifiutò di stare al gioco. Si alzò, avanzò e disse:

OBAMA: Questo tipo di domande ha il solo scopo di dividerci. Voi lo sapete e avete ragione. Chiunque viva in questo paese, impara a parlare inglese. La questione non è se le future generazioni di immigranti impareranno l’inglese. La questione è: come possiamo pervenire a una politica dell’immigrazione che sia al tempo stesso rispettosa della legge e sensibile. E quando ci lasciamo distrarre da questo tipo di questioni, penso che non rendiamo un servizio al popolo americano» (pp. 182-183).

Cos’è dunque un frame? È come la cornice di un quadro, che descrive il contorno tra ciò che va visto e ciò che resta fuori dalla visuale. Lakoff cita con grande apprezzamento un saggio di Drew Westen, il cervello politico (The political brain), su cui ci soffermiamo per considerare i possibili risvolti applicativi del lavoro di Lakoff. Drew Westen, specializzato in Psicologia clinica, politica e della personalità, è anche fondatore di una società di consulenza politica e aziendale, la Westen Strategies. Il suo libro è stato letto con entusiasmo da Bill Clinton e utilizzato dallo staff di Obama perché contiene un modello “data-driven” per lo studio del linguaggio politico democratico e per la sua gestione in modo tale da renderlo accettabile anche al centro.
Il motto della Westen Strategies è chiaramente in linea con le ricerche di Lakoff: Persuasion is about networks and narratives, “la persuasione ha a che fare con reti e narrazioni”. Il rapporto tra idee e emozioni è presentato come quello tra mappa e carburante: senza la capacità di suscitare emozioni, non si va da nessuna parte. Il messaggio di successo è quello «che muove la gente» (that moves people). E ancora: «le campagne politiche hanno a che fare con la capacità di attivare e dar forma a reti attraverso storie e immagini». I networks su cui si richiama l’attenzione sono le reti neurali e, al tempo stesso, le reti di cittadini, attivisti e associazioni. La grande aspirazione della scienza della persuasione del XXI secolo è quella di incidere sulle prime per attivare le altre. Il sito della Westen Strategies offre alcuni spunti per capire come può essere impostato un lavoro in tal senso. Ai candidati politici, Westen si propone come consulente che non vuole decidere quali temi portare avanti (what issues to run on), ma come comunicarli nel modo migliore. La consulenza riguarda al tempo stesso il linguaggio, le immagini e l’immaginario a cui riferirsi e i media da utilizzare. Considerando l’organizzazione di una campagna, l’accento è anzitutto sulla messa a punto di una narrazione-guida: un’intervista in profondità, di durata compresa tra le quattro e le otto ore, accompagna il candidato attraverso la sua storia, i suoi valori e i suoi obiettivi, «per identificare gli elementi della biografia che raccontano meglio» ciò che il candidato è, illustrandone i valori e i temi. La costruzione della narrazione seleziona le parti più rilevanti e gli episodi più evocativi in termini emotivi. Parallelamente, la società di consulenza lavora sulla storia di ogni candidato rivale, con l’obiettivo di padroneggiare «le quattro narrazioni più importanti in una campagna»: quella del candidato cliente su se stesso; quella che di lui viene raccontata da ciascun rivale; quella che il candidato cliente racconta del rivale e quella che il rivale racconta di sé.
Il secondo punto riguarda la costruzione del messaggio (“messaging”): qui si tratta di «identificare il linguaggio» che meglio veicola ciò che il candidato vuole comunicare in relazione all’uditorio di riferimento, e le promesse della Westen Strategies sono esplicite: «abbiamo sviluppato e testato con campioni nazionali di ampie dimensioni il linguaggio vincente in quelli che virtualmente sono tutti i maggiori temi elettorali nazionali negli Stati Uniti, includendo argomenti cuneo come l’aborto e l’immigrazione». Lo scopo? «Evitare» al candidato «di dover scegliere tra il dire ciò che pensa e il vincere le elezioni». Un terzo passo consiste nella scrittura e nell’editing dei discorsi, con il successivo coaching per la preparazione ai dibattiti e alle performances pubbliche, per potenziare l’abilità espressiva e retorica del candidato, aiutandolo altresì a controllare i comportamenti non verbali e la scelta inavvertita di parole che potrebbero «inviare segnali» che non si intende inviare. Come ultimo punto, la consulenza riguarda l’organizzazione della campagna mediatica.

Il libro di Lakoff dà molti spunti interessanti anche per una discussione sulla situazione italiana; eppure, proprio le vicende italiane dell’ultimo quindicennio consentono di evidenziare un limite del punto di vista di Lakoff. La sua analisi dei processi di framing è costruita tenendo conto dello scenario bipartitico statunitense e, in particolare, dei confronti a livello nazionale, nel corso dei quali (in periodo elettorale oppure no) il peso del marketing politico orientato ai mass media è molto alto. Volendo però utilizzare in altri contesti e ad altri livelli il modello interpretativo ed euristico proposto dal saggio, emerge subito la necessità di integrarlo con contributi provenienti dai filoni di ricerca più disparati. In questo Lakoff non aiuta, perché ad esempio liquida la tradizione del pensiero politico occidentale con queste poche righe: «Le nostre menti funzionano in modo molto diverso da quello che pensavano Cartesio e Kant. Noi siamo creature di gran lunga più affascinanti di quello che credevano i nostri grandi filosofi della politica, da Platone e Aristotele a Rousseau, Hobbes, Locke, Marx, J.S. Mill e John Rawls» (pp. 321-322). In due brevi proposizioni troviamo appiattiti su uno sfondo omogeneizzante pensatori molto diversi tra loro, che in realtà hanno dato contributi non sottovalutabili proprio per il discorso che Lakoff vuole proporre. Basterebbe pensare al Platone della Repubblica e delle Leggi o all’Aristotele della Poetica e della Retorica: il primo ci parla di una psyché tripartita e polimorfa, in cui la parte razionale è continuamente assediata da quella “animosa” e da quella “appetitiva” o concupiscibile, opaca e irrazionale; da ciò consegue che il consenso può dipendere dai miti raccontati da chi detiene il potere, più che dalle argomentazioni di cui è capace; Aristotele affrontava invece, con analisi raffinate e tuttora stimolanti, il rapporto tra vero, verosimile e credenze, interrogandosi sui motivi alla base del paradosso che i padri siciliani della retorica avevano scoperto e sfruttato fin dal V secolo a.C.: una narrazione verosimile ben costruita può essere più credibile di una narrazione vera, cosicché per ottenere il consenso e convincere conviene puntare al miglior verosimile più che al vero. Gli esempi si potrebbero moltiplicare, soprattutto considerando gli studi che, già nel passaggio tra XIX e XX secolo e poi per tutto il Novecento, trattarono di consenso in relazione alle tecniche di propaganda, alla psicologia delle folle o delle masse, agli effetti dei mezzi di comunicazione di massa e così via. Questa storia è il “punto cieco” del saggio di Lakoff, che a tratti sembra voler proporre una fenomenologia del consenso politico soltanto in relazione alle acquisizioni più recenti della scienza della mente. Il che comporterebbe una riduzione di complessità, anziché quell’incremento di complessità che il saggio di Lakoff effettivamente può consentire, nell’analisi dei processi che presiedono alla comparsa e al consolidarsi delle credenze, alla presa persuasiva delle narrazioni, alla propagazione di frames e, attraverso tutti questi passaggi, alla formazione del consenso nelle democrazie contemporanee.

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