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Richard Sennett, L'uomo artigiano

Feltrinelli, 2008, pp. 311, euro 25.
Recensione di Antonio Castagna.

copertina“I mali contenuti nel vaso di Pandora possono davvero essere resi meno spaventosi; è possibile realizzare una vita materiale più umana, se solo si comprende meglio il processo del fare” (p. 17).
L'apertura del vaso infatti ci mette di fronte all'ambiguità. Da lì può venire tutto il bene e tutto il male scatenati dall'operare dell'uomo, il che rende necessario occuparsi del fare.
Il libro di Richard Sennett, dedicato alle facoltà di costruzione e invenzione dell'uomo nel lavoro artigiano apre forse un capitolo nuovo nell'analisi del lavoro umano e sicuramente offre uno spunto di riflessione di cui tenere conto in un'epoca in cui domina un'idea del fare e della concretezza come ambiti dell'azione umana sostanzialmente irriflessivi.
L'uomo artigiano impara attraverso il fare, la ripetizione, che lo rende abile a svolgere determinati compiti, e l'immaginazione. L'animal laborans (Sennett utilizza le stesse categorie della sua maestra Hanna Arendt di cui ricordiamo la tripartizione animal laborans, homo faber e zoon politikon, mettendone però in discussione la separatezza) per Sennett non vive uno stato di separazione dall'homo faber, ma può spingersi in quella direzione. Quel che sembra interessare a Sennett è individuare delle costanti attraverso il tempo. Artigiani non sono solamente coloro che facevano parte delle corporazioni medievali, con il loro sistema strutturato e ritualizzato di formazione e apprendimento dei giovani che diventano maestri dopo sette anni di apprendistato. Nelle prime pagine Sennett propone di utilizzare come discriminante il rapporto con il compito e l'apprendimento: “Il falegname, la tecnica di laboratorio e il direttore d'orchestra sono tutti artigiani, nel senso che a loro sta a cuore il lavoro ben fatto per se stesso. Svolgono un'attività pratica, ma il loro lavoro non è semplicemente un mezzo per raggiungere un fine di un altro ordine. Se lavorasse più in fretta, il falegname potrebbe vendere più mobili; la tecnica del laboratorio potrebbe cavarsela demandando il problema al suo capo; il direttore d'orchestra sarebbe forse invitato più spesso dalle orchestre stabili se tenesse d'occhio l'orologio. Nella vita ce la si può cavare benissimo senza dedizione. L'artigiano è la figura rappresentativa di una specifica condizione umana: quella del mettere un impegno personale nelle cose che si fanno” (pp. 27-28).
Artigiani infatti sono anche altre categorie presenti nella nostra epoca, sono i ricercatori in un laboratorio, le comunità che attorno a un sistema open source come Linux smanettano e si confrontano a partire dall'uso e dai problemi che incontrano. L'artigiano si distingue proprio per la sua capacità di unire al lavoro delle mani quello della testa e l'immaginazione. Agisce nel circolo coevolutivo tra mente e mano, prensione e apprendimento. Ogni problema porta a una riflessione e a un'azione che da vita a nuovi problemi. “il bravo artigiano usa le sue soluzioni per scoprire nuovi territori; nella sua mente, la soluzione di un problema e l'individuazione di nuovi problemi sono intimamente legate” (p. 20). L'artigiano non si limita a chiedersi come, prerogativa esclusiva dell'animal laborans, ma anche perché.
Sennett parla della tecnica e della maestria che sviluppate al massimo grado permettono di porsi domande sempre più complesse. È stato calcolato, scrive, che al musicista, come al carpentiere, per diventare padroni della tecnica occorrono circa diecimila ore di lavoro. È solo una volta che si sarà riusciti a padroneggiare al massimo grado la tecnica che sarà possibile porsi domande su questioni più complicate. È noto infatti che in un laboratorio artigiano i giovani apprendisti svolgono i lavori più meccanici e ripetitivi e solo il maestro si occupa di immaginare e progettare il nuovo. Questa modalità di apprendimento fondata sulla continuità tra apprendimento della tecnica e acquisizione della maestria permette di coniugare la pratica e l'immaginazione, al contrario di quanto avviene attualmente nel lavoro, dove “l'abilità tecnica è stata scissa dall'immaginazione” (p.29).
Di conseguenza la motivazione al lavoro non dipende più, come per il lavoro artigiano, dal rapporto con l'oggetto, ma da motivazioni astratte: “Nel mondo moderno vigono due sistemi per stimolare la voglia di lavorare molto e bene. Uno è dato dall'imperativo morale di lavorare per il bene della comunità. L'altro fa appello alla competitività” (p.35). Nessuno dei due sistemi, il primo dei quali si rintracciava soprattutto nei paesi socialisti, viene incontro però all'aspirazione dell'artigiano alla qualità.
La qualità ha bisogno del confronto con il campo, e di tempo. Un progettista che lavora con autocad vede tutto nella sua compiutezza, non riesce a prendere la distanza dall'oggetto progettato. Né, spesso, riesce a instaurare un rapporto con il territorio, con i vincoli progettuali. L'esempio più eclatante Sennett lo propone nel capitolo 9, L'ossessione della qualità, in cui mette a confronto il filosofo Ludwig Wittgenstein che progetta la casa della sorella e il suo amico architetto Adolf Loos che progetta la casa per sé. Wittgenstein aveva l'ossessione per la perfezione, per la proporzione perfetta, arrivando a demolire un soffitto per farlo rifare tre centimetri più alto. L'ossessione di Loos era quella di fare un buon uso della contingenza, dei vincoli. Non ha l'ossessione della forma perfetta, perché lo porterebbe a focalizzarsi sui dettagli perdendo di vista l'insieme. La differenza è esemplificata nell'uso che Loos fa dello schizzo, che prevede per ciò stesso che venga buttato e rifatto continuamente, mentre Wittgenstein adeguò la forma a un progetto già tutto predefinito, rimuovendo le tracce (p. 246) della storia costruttiva.
“Tre capacità fondamentali stanno alla base della perizia tecnica. E cioè: la capacità di localizzare i problemi, la capacità di porsi domande su di essi e la capacità di <<aprirli>>. La prima consiste nel dare concretezza alle questioni, la seconda nel riflettere sulle loro qualità, la terza nell'ampliarne il senso.” (pp. 263-264).
L'enfasi che Sennett pone sulla tecnica e sul rapporto tra tecnica e immaginazione lasciano trasparire con chiarezza la critica, già ampiamente sviluppata in L'uomo flessibile del nostro mondo del lavoro. L'iperflessibilità infatti non permette di costruire una storia, di dedicare le diecimila ore necessarie a impratichirsi di una tecnica e dunque impedisce la maestria, con tutto quello che comporta in termini di perdita di motivazione e di capacità applicate al lavoro e di erosione del carattere e dell'identità. Ma apre anche la strada a una critica radicale del nostro sistema produttivo che separa l'operatività dal pensiero e l'immaginazione. Tale separazione non consente di aprire i problemi, cioè di allargare le domande, di sviluppare una propria visione etica su ciò che si sta facendo. L'homo faber, che pure contribuisce a creare il mondo comune, perde così di interrogarsi responsabilmente sul mondo a cui sta contribuendo a dare vita. Perde il legame tra i mezzi e i fini. Sennett a questo proposito sottolinea come durante la costruzione della bomba atomica, soltanto uno del gruppo degli scienziati si pose domande sulla forza minima di cui dotare la bomba. “Joseph Rotblat fu accusato da molti dei suoi colleghi di disfattismo e addirittura di tradimento” (p. 280). La separazione porta a un'etica del post factum.
L'indicazione che possiamo trarne rispetto al lavoro umano e alle sue caratteristiche preminenti attualmente è molto precisa, sia nella sua pars destruens che nella pars costruens. Ma soprattutto ci dice qualcosa di nuovo a proposito della relazione tra l'animal laborans, l'homo faber e lo zoon politikon. Questi non possono vivere separati, altrimenti i processi co-evolutivi mano cervello si bloccano, fermando così il processo che porta ad aprire le domande e dunque a sviluppare un rapporto etico con il mondo. È a questo punto che Sennett incontra le riflessioni di Polemos sul tema dell'indifferenza e della negazione del conflitto. La separazione di pensiero e pratica ci regrediscono ad animal laborans, alle prese con domande sul come, indifferenti al perché, esito che conduce alla banalizzazione e alla trasformazione degli uomini in ingranaggi, parti di una macchina indifferente e anonima. Che tutto questo ci dica qualcosa anche su come sia stato possibile non accorgersi che determinati comportamenti avrebbero portato all'attuale crisi della finanza e dell'economia?

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