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Carl Schmitt, Il concetto discriminatorio di guerra (1938)

Laterza, 2008

Recensione di Luca Mori.


copertinaIl testo risale al 1938, opera di un Carl Schmitt ormai cinquantenne, da poco estromesso dagli incarichi pubblici che aveva ricoperto per il regime nazista.
Nella Prefazione (V-XXXII), Danilo Zolo scrive che questo saggio contiene un’acuta profezia delle «“nuove guerre” che gli Stati Uniti e i loro più stretti alleati occidentali hanno condotto nell’arco del tempo che va dalla Guerra del Golfo del 1991 all’aggressione dell’Iraq nel 2003» (p. XXVIII). In effetti, Schmitt riflette su cosa comporti, nel tentativo di disegnare un ordinamento giuridico internazionale, stabilire che una delle parti in guerra è giusta e l’altra ingiusta, che una guerra è lecita e l’altra illecita. Riguardo al concetto discriminatorio di guerra, Schmitt segnala il ruolo cruciale delle dichiarazioni con cui il Presidente statunitense Wilson, nel 1917, annunciò la decisione di dichiarare guerra alla Germania: qui si annuncia una svolta nella «storia del diritto internazionale», che è in sostanza «una storia del concetto di guerra» (p. 3).
Più precisamente, Schmitt ritiene che il confine tra guerra e non-guerra fosse ormai confuso. Con le pretese di Wilson e con il ruolo della Società delle Nazioni, dal momento che vengono distinte la guerra giusta/lecita e quella ingiusta/illecita, non ci si può più riferire a un unico concetto di guerra: infatti, in un ordinamento giuridico, due azioni riconosciute contrapposte come lecita e illecita non possono essere ricondotte a un unico concetto. Così, il ruolo attribuito alla Società delle Nazioni presuppone la distinzione tra guerra di esecuzione o sanzione, guerra tollerata e guerra vietata. Più precisamente, si inizia a poter pensare una guerra come operazione di polizia internazionale: mentre il governo impegnato nella “guerra ingiusta” viene presentato come la guida criminale di uno “Stato predone”, chi s’incarica di punirlo per giusta causa in nome dell’umanità si pone come artefice di un «nuovo ordine mondiale». In questo modo, tuttavia, revocando all’hostis, al nemico pubblico, lo statuto di avversario per certi versi paritetico (impegnato in una guerra non più ingiusta né illecita di quella con cui gli si risponde), lo spazio stesso del politico sembrerebbe svanire (in particolare, del politico definito da Schmitt in termini di relazione “amico-nemico”).
Una prima parte del testo è dedicata a discutere il Précis de droit des gens di Georges Scelle (1932-34) e il saggio di Hersch Lauterpacht, del 1933, intitolato The Function of Law in the International Community. Successivamente, Schmitt si confronta con due saggi tratti da The British Yearbook of International Law, del 1936, dove in particolare il saggio di Arnold McNair su Collective Security espone un’importante riflessione sulla possibilità di restare neutrali in un mondo in cui si sia affermato un concetto discriminatorio di guerra: «[n]on appena viene negata l’idea di una possibile neutralità e con essa la nozione di uno “Stato terzo” non partecipante alle ostilità – osserva Schmitt – emerge la pretesa di esercitare un dominio universale o regionale» (p. 65).
Come dovrebbero suggerire queste brevi note, il saggio solleva questioni importanti e attuali, dal momento che negli ultimi lustri il concetto di guerra sembra aver subito altre trasformazioni, essendo stato, per la prima volta nella storia di Homo sapiens, associato all’aggetto “infinito”. Che concetto di guerra veicola la locuzione “guerra infinita”? Quale immagine di ordine internazionale?
Tornando a Schmitt, ogni sguardo ha il suo punto cieco: nel testo, ad esempio, non troviamo alcun accenno al concetto discriminatorio di razza e di umanità elaborati nella Germania degli anni ’30. Forse la lettura del saggio, tenendo presente questa lacuna, può tuttavia aiutare ad immaginare un’analisi di altri concetti declinati in forma discriminatoria nel corso del XX secolo.


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