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Marc D. Hauser, Menti morali. Le origini naturali del bene e del male (2006)

Trad. it. di A. Pedeferri, Il Saggiatore, Milano 2007

Recensione di Luca Mori


copertinaMarc D. Hauser insegna Psicologia, Biologia evolutiva e Antropologia biologica all’Università di Harvard, dove dirige il Laboratorio di Evoluzione cognitiva e codirige un programma di ricerca su «Mente, cervello e comportamento». Tra i suoi lavori, è stato tradotto in italiano Menti selvagge. Cosa veramente pensano gli animali (Newton&Compton 2002).

Nella frase d’apertura del Prologo, l’autore azzarda l’esposizione sintetica del contenuto del libro, riassumendone l’«idea centrale» (presentata come idea «semplice») in questi termini: «abbiamo evoluto un istinto morale, una capacità che cresce generalmente all’interno di ogni bambino, progettata per generare giudizi rapidi su ciò che è moralmente giusto o sbagliato basandosi su un’inconsapevole grammatica dell’azione» (p. 9). Bastano queste righe a evidenziare, ancor prima che l’idea, la difficoltà centrale che attraversa questo lungo saggio, costruito sui tre piani della riflessione filosofica (confronto costante con Kant, Hume e Rawls), della ricerca scientifica (non manca il riferimento ai mirror neurons: pp. 223-225) e dell’indagine su questionari relativi a dilemmi morali in scenari fittizi, immaginati ad hoc: la difficoltà è quella dovuta al modo con cui sono introdotti i concetti di istinto, giudizio, grammatica inconsapevole dell’azione e grammatica consapevole.
Ispirandosi alla «rivoluzione» di Noam Chomsky in campo linguistico, Hauser sostiene che «la nostra facoltà morale è dotata di una grammatica morale universale, un insieme di strumenti per costruire sistemi morali specifici» (p. 9). Nell’interessante tentativo di individuare le radici biologiche, e quindi naturali, dei sistemi morali particolari – ipotizzando l’esistenza di vincoli biologici alla capacità umana di “inventare” codici morali, o semplicemente di avere reazioni morali – l’autore insiste sul «tentativo di comprendere i nostri istinti morali» (p. 10). Ci parla, così, di «istinti morali […] immuni ai comandamenti espliciti trasmessi dalle religioni e dalle autorità» e, subito dopo, passando da istinto a intuizione, di «intuizioni morali» che possono convergere o divergere da quelle «dettate dalla cultura» (p. 10).
In questo caso, a prescindere dalla centralità riservata a una nozione controversa come quella di “istinto”, si avverte il problematico tentativo di dipanare l’intreccio di natura e cultura nell’uomo. Da un lato la natura, con i suoi istinti e le sue intuizioni relative ad azioni moralmente rilevanti; dall’altro la cultura, con le sue grammatiche particolari, storicamente determinate e apprese. Quello tra natura e cultura nell’uomo, però, è un intreccio complesso, e molti lo ritengono inestricabile senza un’operazione riduzionistica.
Qui è in gioco la questione, sollevata dallo stesso Hauser, del «riconoscimento della complessità del mondo» (p. 10). Al riguardo, però, nel libro troviamo due indicazioni: da un lato, a quel riconoscimento segue l’idea che sia impossibile una «descrizione esaustiva» del mondo; dall’altro, prendendo atto di tale impossibilità d’essere esaustivi, si ritiene che «il modo migliore per procedere» consista nell’«isolare una piccola parte del problema, adottare pochi presupposti semplici e tentare di ottenere una qualche comprensione analizzando in profondità questo spazio» (p. 10). Al riguardo, l’impostazione del saggio risulta carente dal punto di vista metodologico ed epistemologico: poiché in effetti procede “isolando una parte” (il tema dell’“istinto”) e, da questa, pretende di ricavare una teoria generale; in altri termini, prende la parte per il tutto, con postura riduzionistica.
Veniamo al nesso tra istinto e giudizio. Si è visto come l’istinto morale trapassi, quasi per una sinonimia implicitamente suggerita, nell’“intuizione” morale. Questa, a sua volta, sembra presentarsi immediatamente come «giudizio»: «[i] giudizi di grammaticalità sono prodotti spontaneamente, rapidamente, senza alcuna riflessione. I giudizi di eticità dovrebbero essere prodotti allo stesso modo, ma basandosi su azioni che hanno una pertinenza morale» (p. 53). C’è di più: perfino i «giudizi ponderati» (l’autore pensa a quelli di Rawls, che consentono di risolvere il conflitto morale) vengono presentati come giudizi «formulati rapidamente, automaticamente, senza riflessione, con piena fiducia, in assenza di passioni accese e senza interessi personali espliciti» (p. 75). Questo brano permette di evidenziare gli ultimi due assunti discutibili nel quadro teorico che il libro vuole articolare: 1) che si dia un giudizio (ponderato) irriflesso, appartenente quindi all’ambito della natura più che della cultura (perché collegato senza mediazione, “automaticamente”, all’istinto morale “innato”); 2) che il conflitto morale sia qualcosa di risolvibile sul piano dell’istinto-intuizione o del giudizio.
Su questo sfondo problematico, Hauser fa muovere le creature “kantiane”, “humeane” e “rawlsiane”: figure stilizzate, ispirate agli aspetti più noti del pensiero dei filosofi chiamati in causa. Ad esempio, nella “creatura kantiana” proposta da Hauser c’è molto più il Kant della Critica della ragione pratica del Kant dell’Antropologia pragmatica, che pure sarebbe centrale per i temi affrontati.
Evidenziati i punti critici nell’ipotesi teorica complessiva avanzata dall’autore, non si può tuttavia sottovalutare l’interesse di un saggio che s’interroga su come la morale possa affondare le sue radici nella biologia o, in termini evolutivi, nell’essere animale dell’uomo, e sul rapporto tra dotazione di vincoli “naturali” nella grammatica dell’interazione, e vincoli “culturali” o derivati dall’esperienza. Nelle quasi cinquecento pagine del libro troviamo numerosi esempi, discussioni di situazioni fittizie e di ricerche scientifiche recenti che offrono originali e provocatori spunti per il dibattito sulle “origini del bene e del male”.
Il problema, nel saggio, è che continua a muoversi tra i poli del dualismo e del monismo: il primo resiste laddove l’autore scrive di “istinti morali” inscritti nella dimensione biologica, immuni dal condizionamento di fattori culturali; il secondo laddove – senza tener conto dei dislivelli descrittivi e dei livelli d’emergenza – si finisce con il confondere termini come “istinto” e “giudizio”, “natura” e “cultura”.
Nel libro, poi, manca un cenno significativo al tema dell’ambiguità. Eppure, il conflitto (in primis morale) ha a che fare in molti senso con l’ambiguità e non è semplicemente qualcosa da risolvere. L’autore presenta l’uomo come animale dotato di una sorta di software inconsapevole, radicato da qualche parte (in un’istinto morale che è vincolato biologicamente, sa farsi giudizio ma non è ancora condizionato dalla cultura), predisposto per “risolvere” immediatamente e intuitivamente i conflitti morali. Tra l’altro, parlando di un “giudizio intuitivo”, e quindi facendo del giudizio un risvolto dell’intuizione immediata, ignora il tema dell’automatismo del pregiudizio: quest’ultima sì una dimensione per così dire “automatica” del giudizio, concepita da tanti come una “seconda natura” (ma pur sempre radicata nella dimensione del “senso”, più che in quella dell’istinto biologicamente evoluto e progettato). Paradossalmente, trascurando di analizzare adeguatamente il nodo tra natura e cultura, l’autore finisce col tagliarlo e col riproporre una sorta di dualismo, laddove vorrebbe negarlo: ciò accade quando un tentativo di trovare le radici biologico-naturali della dimensione del “senso” e del “conflitto” non riconosce la tensione e l’irriducibilità (anzitutto descrittiva) tra i due livelli.
Al riguardo, troviamo una buona esposizione di argomenti epistemologici nel libro di John Dupré (ed. orig. 2001) recentemente tradotto in italiano: Natura umana, Laterza, Roma-Bari 2007.


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