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David Grossman, Con gli occhi del nemico. Raccontare la pace in un paese in guerra

Mondadori, 2007

Recensione di Antonio Castagna


copertinaIl libro è costituito da quattro saggi, due dei quali già apparsi in Italia, Il dovere di Israele è scegliere la pace, discorso in ricordo di Yitzhak Rabin, e L’arte di scrivere nelle tenebre della guerra, entrambi pubblicati da “La Repubblica”. Gli altri due sono Conoscere l’altro dall’interno, ovvero la voglia di essere Gisele e Meditazioni su una pace che sfugge.
Al di là delle differenze tematiche i quattro saggi hanno in comune la tensione alla pace. Grossman restituisce sulle pagine un discorso alto sulla pace senza abbandonare il suo punto di vista di narratore. La bellezza del libro è proprio questa capacità dell’autore di non dimenticare mai il punto di vista specifico da cui parla. Ed è proprio tale specificità a dare alle sue pagine un particolare spessore e significato, suggerendo che narrare (e leggere) significa avere la possibilità di accostarsi all’altro, assumendone il punto di vista, fino quasi a identificarsi. “Il movente”, che lo spinge a scrivere è proprio “l’aspirazione a rimuovere, volontariamente, ciò che mi difende dall’altro. L’aspirazione ad abbattere quella parete divisoria, per lo più invisibile, che separa me dal prossimo (chiunque egli sia), verso il quale provo un interesse fondamentale, profondo; l’aspirazione a espormi in tutto e per tutto, senza alcuna difesa, in quanto individuo, e non soltanto scrittore, di fronte alla personalità e alla vita di un altro individuo, alla sua interiorità più segreta e autentica, primordiale” (p.7). Accostandosi agli altri, grazie al mestiere di scrittore, continua Grossman, si rende conto di quanto siamo “asserragliati”, non solo contro il nemico, ma “dal prossimo, chiunque esso sia. Dalla radiazione della sua interiorità dentro di noi, da ciò che la sua interiorità esige da noi”. Tale separazione vige anche tra amici, come se ci fosse “soggezione di fronte a ciò che accade veramente all’interno dell’altro. È la paura dinanzi a quel nucleo misterioso, non verbale, irriducibile, che sfugge a ogni addomesticamento sociale” (p. 13). La scrittura narrativa sarebbe invece un atto di ribellione, che permette di arrivare al “centro del prossimo in quanto altro”. La letteratura permette di compiere un atto quasi materno, di riscattare l’altro dalla banalità e dalla semplificazione degli stereotipi, riconoscendone il punto di vista, le ragioni che lo fanno agire, rendendocelo finalmente prossimo. È questa la ricerca dello scrittore quando lavora su un personaggio, ma, afferma Grossmann, dovrebbe essere anche il lavoro dei politici quando si confrontano con il nemico. Il valore politico della scrittura (e della lettura) risiede proprio in questa capacità di proporre un metodo di conoscenza. È questo metodo che può consentire l’uscita dalle generalizzazioni dettate dalla paura, che può permettere di rendere meno “angusto” il mondo, come dice benissimo l’autore nel secondo saggio L’arte di scrivere nelle tenebre della guerra: “Io scrivo, e mi sforzo di non proteggere me stesso dalle sofferenze del nemico, dalle sue ragioni, dalla tragicità e dalla complessità della sua vita, dai suoi errori, dai suoi crimini. E nemmeno dalla consapevolezza di quello che io faccio a lui, né dai sorprendenti tratti di somiglianza che scopro tra lui e me. Io scrivo. A un tratto non sono più condannato a una dicotomia totale, fasulla, soffocante: la scelta brutale tra essere vittima o aggressore. […]. Quando scrivo riesco a essere un uomo nel senso pieno del termine, un uomo che si sposta con naturalezza tra le varie parti di cui è composto; che ha momenti in cui si sente vicino alla sofferenza e alle ragioni dei suoi nemici senza rinunciare minimamente alla propria identità” (p. 50).
Quella di Grossman è al contempo una lezione su un metodo conoscitivo e una lucida e appassionata testimonianza sulla necessità di riconoscere la molteplicità di cui siamo fatti, che potrebbe consentirci, ascoltandola, di prestare ascolto anche al nemico, in quanto egli stesso molteplice. La pace non è una rinuncia, da questo punto di vista, quanto la ricerca di possibilità inesplorate.


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