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Guido Viale, Vita e morte dell’automobile. La mobilità che viene

Bollati Boringhieri, Torino, 2007

Recensione di Antonio Castagna


copertina“Sono rimasto/a a piedi” è un’espressione entrata nell’uso comune per dire che si è sguarniti di qualcosa, di un lavoro, di un passaggio, della compagnia per le vacanze, di un protettore, del fidanzato/a. L’espressione ci segnala però anche, insieme a molte altre, come la presenza dell’automobile sia diventata talmente naturale da rendere le metafore legate al suo uso o alla sua assenza, non necessarie di spiegazione. Altri sintomi di tale processo di naturalizzazione sono le persone che per spiegarti un tragitto da un punto a un altro, non avendoti nemmeno chiesto se sei in auto o a piedi, danno le indicazioni come se fossimo in automobile senz’altro. O ancora, la presenza di strade urbane prive di marciapiede, le indicazioni presenti su molti siti web per raggiungere un luogo, spesso solo per automobilisti. L’uso dell’automobile è talmente naturale da assistere negli ultimi anni a un gran dibattito sulla riduzione degli inquinanti, sulle benzine verdi, sull’idrogeno ecc. Quasi a nessuno è venuto in mente che l’automobile, nata per affrontare il problema della mobilità, è diventata essa stessa un problema, non solo perché consuma idrocarburi inquinando, o perché per costruirla occorre comunque materia ed energia, ma soprattutto perché sacrifichiamo alla sua esistenza il 60% dello spazio urbano, che così non è più spazio pubblico di incontro ma uno “scolo di traffico”, come scrive Guido Viale a pagina 21.
Viale è uno di quei pochi che il problema rappresentato dall’abuso di traffico automobilistico lo pone in maniera radicale da diversi anni (è anche l’autore di “Tutti in taxi”, Feltrinelli, 1996). La questione centrale posta da Viale è proprio nel nesso tra uso dell’automobile e scomparsa dello spazio pubblico, lo spazio dei “contatti fortuiti”, la piazza, il mercato (p. 103), degli “scambi”, delle “contrattazioni”, ma anche lo spazio del confronto pubblico nei comizi politici, ormai trasformati in show televisivi. Contestualmente, l’automobile estende lo spazio privato, perché è come un guscio protettivo, una casa semovente, dove finiamo per trascorrere la maggior parte del nostro tempo libero. Il nesso sollevato da Viale è importante, perché ci costringe a osservare la questione dal punto di vista della necessaria riorganizzazione della vita urbana, dove sempre di più la frenesia non coincide con la velocità (dati i tempi eccessivi dedicati allo spostamento) e dove sempre meno esistono “spazi di incontro non programmati”. Per farlo, secondo Viale, è necessario che gli amministratori pubblici si impegnino, insieme ad architetti e urbanisti a ripensare la città, e contestualmente, che diano vita ad azioni che in maniera negoziale attivino una serie di politiche per il trasporto capaci, integrandosi, di fornire le risposte migliori alle esigenze di mobilità. Da questo punto di vista Viale si limita a riproporre le direttrici già presenti in “Tutti in taxi” e parla di “car sharing” (servizio già presente in numerose città italiane), “car pooling” (l’utilizzo di un’auto per almeno tre utenti, considerando che attualmente su un’auto viaggiano 1,2 persone in media), tram e metropolitana di superficie, taxi collettivo.
Il testo di Viale è interessante per la sua semplicità, ma anche perché le soluzioni proposte sono tutte ragionevoli, facili da attivare, dal punto di vista tecnico. Inoltre l’autore riesce a porre le questioni nella giusta ottica, non catastrofista né ideologica, ma pratica, finalizzata a salvaguardare il meglio della vita urbana che, privata dello spazio pubblico risulta decisamente impoverita e sempre meno capace di innovarsi attraverso l’apprendimento collettivo. Il punto di forza del libro è forse, al contempo, anche il suo punto debole. Infatti, se le soluzioni sono così facili e a portata di mano, allora forse l’attenzione andrebbe posta piuttosto sui vincoli affettivi e cognitivi che impediscono alla stragrande maggioranza di noi di pensare e praticare le soluzioni indicate. In fondo, gli amministratori pubblici, di cui Viale richiama giustamente le responsabilità, sono persone come noi, anche loro vivono avvolti nel carapace rappresentato dalla loro automobile o dall’auto blu.
In un articolo scritto alcuni anni fa, Walter Tocci, ex Assessore al traffico della prima giunta Rutelli, scriveva che “l’ingorgo è prima di tutto mentale”. Se riflettiamo in effetti, i provvedimenti presi o di cui si parla, dalle diverse amministrazioni in tutta Italia e dalle case automobilistiche, costituiscono dei palliativi dentro la cornice mentale che ha trasformato l’auto in un’estensione del corpo umano. Targhe alterne, Zone a Traffico Limitato, ingressi a pedaggio, parcheggi sotterranei, corsie preferenziali per i mezzi pubblici, benzine verdi, motori catalizzati euro 5, gpl, metano, auto ibride, a idrogeno ed elettriche, ecc. sono tutte soluzioni che condividono la cornice secondo la quale ognuno deve potersi muovere in automobile. Il punto è che il vero problema è muoversi adeguatamente. Per far questo bisogna cambiare cornice, e per cambiare cornice non servono i palliativi, che anzi contribuiscono a confermarla, occorre confliggere e negoziare. È questa la parte più difficile, perché il negoziato non riguarderà solo il tema della mobilità, ma più in profondità riguarderà il senso di sicurezza e di identità delle persone. E qui torniamo, credo, alla questione dello spazio pubblico. Occorre un’idea di città, probabilmente, perché possa nascere al suo interno anche un’idea per una mobilità diversa.


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