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Marco Aime, L’incontro mancato. Turisti, nativi, immagini

Bollati Boringhieri, Torino, 2005

Recensione di Gianluca Cepollaro


copertinaNella sua essenzialità potremmo descrivere il turismo con la metafora dell’incontro tra diversità all’interno del quale chi ospita si relaziona con chi è ospitato. L’incontro su cui si sofferma l’antropologo Marco Aime è quello tra un viaggiatore generalmente occidentale, con alto reddito e buona disponibilità di tempo libero, ed un locale di un altrove lontano, pensato luogo incontaminato abitato da “puri ed autentici”. Il libro, infatti, si occupa in particolare di quel tipo di turismo che muove flussi dal nord del mondo verso il sud, verso la ricerca dell’autenticità e dell’esotico: un turismo che si propone spesso come etico, responsabile, sostenibile ma che nei suoi tratti costitutivi non differisce molto da forme di turismo più tradizionale. Non è certamente obiettivo dell’autore, tuttavia, demonizzare quel turismo che chiamiamo responsabile, che nella maggior parte dei casi ha comunque il merito di garantire prezzi più equi, di sensibilizzare gli occidentali ai problemi dei Paesi svantaggiati, di creare nuove forme di partecipazione sociale.
È sostanzialmente “mancato” l’incontro tra il turista ed il nativo perché le distanze tra i loro punti di vista non sembrano colmabili, generano indifferenza più che quello spazio comune all’interno del quale poter conversare, dialogare, scambiare partendo dalla diversità. La velocità, la breve durata, la fugacità che solitamente caratterizzano l’esperienza turistica non sembrano dare spazio a quel reciproco riconoscimento che è alla base di un incontro tra punti di vita diversi, proprio di ogni legame sociale. Sembra che gli sguardi alla fine non si incrocino mai ma che siano unicamente interessati a cercare le conferme di ciò che ci si aspettava di trovare. Un’impossibilità di vedere e di essere visti oltre la superficialità e lo stereotipo. La relazione si riduce ad un intreccio tra immagini ed immaginari: un gioco di specchi in cui si tende a proiettare sull’altro quello che si pensava di lui prima di incontrarsi. In queste relazioni caratterizzate dalla superficialità e dalla fretta è possibile solo il malinteso in cui i punti i vista coinvolti non sono disponibili ad interrogarsi ed apprendere dallo piazzamento che lo stesso malinteso genera ma si candidano ad una sostanziale indifferenza.
Non sembra esserci quasi nulla in comune tra il turista ed il nativo se non le reciproche proiezioni di immagini che fanno si che, mentre il visitatore è alla ricerca “dell’autenticità perduta”, il visitato mostri quella autenticità richiesta custodendo per sé e per la propria comunità la “sua propria autenticità” che ben dista da quella immaginata dal turista e che il nativo ostenta. Così i Tuareg della Libia meridionale, oggi sedentari, ripropongono agli occidentali riti ed abiti tradizionali che vengono loro assegnati dall’aspettativa dei turisti di incontrare una popolazione nomade. Così i Dogon del Mali, descritti come animisti e ritenuti prototipi dell’esotico, inscenano spettacoli ad uso e consumo dei turisti: musiche e danze di durata decisamente inferiore a quelle rituali non più all’ombra del baobab sulla spianata ma nella piazza delle poste in prossimità del principale albergo.
L’incontro tra la ricerca dell’autenticità perduta e l’autenticità rappresentata svela l’ideologia che c’è dietro l’incontro tra turista e nativo. Ideologia che non lascia spazio all’inedito, che mette in scena identità stabili senza considerare che quelle identità sono fatte di emergenze, ibridazioni, meticciati ma anche lunghe durate e persistenze. Un’ideologia che arriva a negare l’insostenibilità del turismo che come qualsiasi altra forma di attività umana incide sulla quantità e qualità delle risorse ambientali, sulle culture, sugli stili di vita.
Così scopriamo che l’euforia folkloristica, l’esibizione dell’ennesimo luogo visitato, il sentimento di buonismo verso una parte del mondo abbandonata, sono pezzi di una sorta di viaggio autoreferenziale in cui nel migliore dei casi l’unica scoperta possibile è quella di capire un po’ meglio noi stessi mentre rischiamo di educarci all’indifferenza.


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