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Sacro

di Luca Mori.

Cenno all’etimologia – L’italiano ‘sacro’ deriva dal latino sacer (forma arcaica sakros), la cui radice pare collegabile all’accadico saqāru (“invocare la divinità”), sakāru (“sbarrare, interdire”) e saqru (elevato) [Semerano, 1994]. In greco, la costellazione dei significati gravitanti attorno al ‘sacro’ si dispiegava su quattro termini: hagnós (luoghi o atteggiamenti di venerazione, timore e rispetto), hagios (grandezza, trascendenza e separatezza del divino), hierós (uomini o oggetti segnati in modo privilegiato dall’influenza divina) e hósios (ciò che la legge divina stabilisce) [Fabris 1996, p. 82].

Unione e separazione – L’etimologia suggerisce che il termine può concorrere a definire un luogo, un oggetto, un ruolo (sacerdote) o un atto ritualizzato (sacrificio, consacrazione) che sono ‘sacri’ in quanto instaurano, per così dire, la grammatica di una relazione triadica fra (1) l’individuo (2) un gruppo/una comunità e (3) il referente simbolico rispetto a cui il gruppo/comunità definisce la propria identità.
La relazione a quattro poli – tra individuo, gruppo di riferimento, referente simbolico e esistente – è complessa e sempre segnata da ambiguità, in quanto la stessa grammatica del sacro – che spesso aspira alla sanzione di un ordine univoco – attiva simultaneamente dinamiche di inclusione/unione e dinamiche di esclusione/separazione. Non tutti possono entrare, allo stesso titolo, in una comunità costruita sul riferimento a qualcosa di ‘sacro’: ci sono dei riti di ‘iniziazione’ che vanno seguiti, e generalmente l’appartenenza alla comunità può nutrirsi dell’idea e dell’orgoglio di una qualche ‘elezione’, di un rapporto privilegiato tra l’individuo e un ‘ordine superiore’ (divino, naturale). Il sacro quindi unisce e separa. Determina l’articolazione di gerarchie e, parallelamente, di scale di prerogative: tra il sacro e il profano, ad esempio; tra ciò che può fare un sacerdote in quanto ministro del sacro, e ciò che possono i ‘semplici credenti’; tra chi è ‘più vicino’ al nucleo della sacralità e chi è più lontano, e così via. Il sacro eguaglia e differenzia. Nella grammatica del sacro, ciò che è differente e discordante (siano comportamenti o credenze) può apparire dissacrante e dunque anormale, destabilizzante, innaturale, contrario o inferiore all’‘ordine superiore’ sacralizzato; la differenza tra i discordanti può essere facilmente interpretata come inferiorità, almeno in termini di dignità.
Nella sua complessità, tuttavia, il termine ‘sacro’ intreccia anche un altro nodo di unione e separazione: il referente simbolico che unisce un gruppo o una comunità, separandoli da chi ne è fuori, non è disponibile a quella comunità, perché ne è in qualche misura pur sempre separato, in quanto fondamento di un ‘ordine superiore’.
L’individuo o la comunità si mettono in relazione con la dimensione del sacro, o ne confermano l’importanza, con riti periodici di esaltazione e di espiazione, di benedizione e di sacrificio. Che tali riti siano necessari, segnala il fatto che il ‘sacro’ si regge pur sempre su una relazione conflittuale tra l’individuo e la comunità, e tra questi e i loro simboli.

Fenomenologia del sacro
– Che sia il risultato di una proiezione, indispensabile già ad un piccolo clan che si faccia un culto per darsi al tempo stesso un’organizzazione sociale (come suggeriva Durkheim) o che sia il mistero tremendo e fascinoso che trova corrispondenza nel ‘sentimento creaturale’ dell’uomo (come intendeva Otto), il sacro ha a che fare in modo speciale con la religione. Si può notare a tal proposito che il sacro accompagna e per certi versi contrassegna due processi costitutivi dello spazio religioso: il religare di cui scrive Lattanzio (Divinae Institutiones, IV, 28) e il relegere di cui scrive Cicerone (De natura deorum, II, 72). Lattanzio ci parla di un legame stretto (il religare) tra uomo e Dio: un legame di pietà che ha ottenuto il nome di religione, e che finisce per indicare anche l’unità possibile tra gli uomini nel segno della pietas. Cicerone ci parla invece dell’attività di coloro che scrupolosamente raccoglievano insieme e sistemavano le cose relative al culto (un relegere, una diligente sistemazione di credenze e pratiche cultuali).
Il sacro, come simbolo religioso (immagine ‘sacra’, parola, ‘segno’) e come referente del simbolo (Dio, intenzione divina), ricorre in entrambi i processi: ne costituisce, per così dire, il principio legittimante e la grammatica.
Si noti che il sacro, in quanto organizza credenze e riunisce gli uomini che si riconoscono in base alle credenze professate e ai simboli condivisi, ha un altro aspetto. Nel predisporre la grammatica del religare (legare uomo e Dio, e gli uomini in una comunità di fede) e del relegere (raccogliere scrupolosamente credenze e riti), il sacro articola anche le ragioni del separare e del togliere via. Separare e ‘tollere’ (togliere): chi non condivide la dimensione del ‘sacro’ a cui una comunità fa riferimento, resta separato da quella comunità, anche se ospite; le credenze e le pratiche differenti relative al sacro, non possono essere ‘raccolte assieme’ a quelle riconosciute ‘sacre’. Possono essere ‘tollerate’, ma con l’auspicabilità di un ‘tollere’, di un ‘togliere via, per sostituire’: quando il riferimento al sacro motiva le missioni di ‘conversione’, è in gioco giustappunto questo passaggio. Con tutto ciò che può conseguirne, data l’ambiguità e l’inquietante duplicità dell’uomo.

Il sacro non religioso
– C’è anche un ‘sacro non religioso’. Ne ha scritto Iacono, in questi termini: «L’ambiguità del sacro è l’ambiguità della naturalizzazione; è il prezzo che le categorie sociali pagano per la loro proiezione nella natura. Il sacro è il doppio della naturalizzazione, il suo specchio scuro. Il sacro deve farci dimenticare, nella forma non banalizzata della naturalizzazione, che istituzioni e valori sono prodotti umani. Esso afferma invece la loro autonomia, investendo questa affermazione d’autorità […]. Se la naturalizzazione produce l’ovvio, il sacro rappresenta la proiezione non ovvia dell’ovvio» [Iacono 2006, p. 124].
A proposito della naturalizzazione, che è un termine-chiave in questo contesto, Iacono precisa che: «[è] la nostra tendenza a concepire le relazioni, i contesti, i passaggi, i prodotti della nostra attività e del nostro lavoro, la nostra stessa attività simbolica, come naturali e eterni e a dimenticarne invece storicità e artificialità. In questo senso la naturalizzazione è funzionale all’autolegittimazione per così dire non dichiarata del potere e dell’ideologia» (ivi, p. 119).
Come interessante esempio di ‘sacro non religioso’, possiamo considerare quelle religioni sui generis che sono le ‘religioni della politica’. Al riguardo, premettendo che «la sacralizzazione della politica consiste nell’attribuire carattere sacro a un’entità secolare, come la nazione, lo Stato, la razza, il partito, il capo», Emilio Gentile distingue tra religione civile («la categoria concettuale entro la quale collochiamo le forme di sacralizzazione di un sistema politico che garantisce la pluralità di idee, la libera competizione per l’esercizio del potere e la revocabilità dei governanti […]») e religione politica («la sacralizzazione di un sistema politico fondato sul monopolio irrevocabile del potere […]»). [Gentile 2007, p.VII e XIX]. Fatta questa distinzione, un passaggio decisivo per le religioni civili si ha con le Rivoluzioni americana e francese, apparse «come insieme di credenze, di valori, di miti, di simboi e riti che conferivano carattere e significato sacro alle nuove istituzioni politiche della sovranità popolare» (ivi, p. XXI).
Generalizzando, ‘sacralizzare’ una politica comporta riferimenti obliqui a un ‘ordine superiore’ alla storia, a un fondamento immutabilmente vero e naturale di legittimazione (eventualmente, divino).

Il sacro e il simbolo
– Ogni caratterizzazione del sacro in modo univoco è riduttiva. Finora non abbiamo considerato molti aspetti che meriterebbero una messa a fuoco. Tra questi, il tema della morte. Basterebbe citare De Martino, per iniziare a riflettere sulla sua rilevanza: «la vita religiosa e il dominio del sacro hanno la loro origine culturale nell’esigenza tecnica di proteggere la presenza dal rischio di non esserci in una storia umana» [De Martino 1995, p. 120].
In conclusione, anziché passare in rassegna i molteplici nodi di una rete problematica intricatissima, è il caso di sollevare una domanda più generale e ambiziosa: cosa fa sì che, nell’economia delle interazioni simboliche, qualcosa diventi sacro? Perché la mente simbolica di Homo sapiens demens (così ci battezza Edgar Morin), perché le relazioni simboliche tra menti complesse come quelle dell’uomo, nell’emergere configurano dimensioni di ‘sacro’? Sarebbe utile studiare in termini evolutivi – anche nel sentimento del bambino nell’introiettare proibizioni e regole – come procede il sentimento del fatto che il comportamento individuale è possibile in quanto circoscritto e segnato nelle sue possibilità, nella sua grammatica, da una matrice condizionante sentita come più forte, al tempo stesso interna ed esterna (il sociale, le rappresentazioni sociali).
Il sacro si svolge dettando condizioni, proibizioni, regole; forse è la condizione di possibilità perché queste siano dettate e appaiano al tempo stesso credibili. Il sacro detta, ma poggia su ciò che è già stato introiettato e naturalizzato.
Storicamente, le rivoluzioni che hanno comportato transizioni del sentimento del sacro su larga scala, hanno richiesto altresì una dislocazione diversa delle credenze prevalenti: sono state pensate, quelle rivoluzioni, come ‘uscite’ da una condizione di minorità, ma hanno sempre comportato l’ingresso in un’altra dimensione del sacro (talora meno nuova di quanto si sperasse).


Bibliografia

E. De Martino, Storia e metastoria, Argo, Lecce 1995
A. Fabris, Introduzione alla filosofia della religione, Laterza, Roma-Bari 1996
E. Gentile, Le religioni della politica, Laterza, Roma-Bari 2007
Marc D. Hauser, Menti morali. Le origini naturali del bene e del male, Il Saggiatore, Milano 2007
A. M. Iacono, Storia, verità e finzione, Manifestolibri, Roma 2006
G. Semerano, Le origini della cultura europea, vol. II, Dizionari etimologici, t. 2: Dizionario della lingua latina e voci moderne, Olschki, Firenze 1994