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Il gioco delle possibilita' nella scoperta della creativita' sociale

di Carla Weber / scritto il 04-01-2010

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Darsi delle possibilità, contare sul fatto che le possibilità sono sempre più di quelle che si vedono nel momento di crisi, è il tema trattato da Ken Loach nel film “Il mio amico Eric”. Il regista inglese entra con creatività nell’esperienza della solitudine umana all’interno della crisi della socialità che ci troviamo a vivere. Egli sa richiamare all’azione, a quell’azione che ciascuno può agire dal punto in cui è, con quello che ha, con quello che può e sa fare soprattutto se si pensa con altri. Un altro da sé, che all’inizio della narrazione è un altro immaginario, come fanno i bambini quando giocano da soli o soffrono in relazioni affettive non sufficientemente supportive. L’ideale di sé del protagonista assume la presenza fisica di un campione di calcio che sa dare voce alla parte saggia, combattiva e passionale da tempo tradita, per paura e colpa, negli eventi della vita. Gli affetti, le emozioni, i sentimenti possono confondere il dato di realtà e impedire la scoperta di quello che va fatto. Allo stesso tempo è solo dal riconnettersi a quegli stessi affetti, emozioni e sentimenti che cogliamo il da farsi e possiamo riattivare l’eros, la passione necessari alla relazione con l’altro, quell’altro di cui abbiamo bisogno per riconoscerci esistenti. Si fa fatica a tenere il passo con l’esigenza vitale, profondamente umana e naturale, di riconoscere la propria influenza negli accadimenti, il proprio potere di agire ciò che il desiderio muove. Troppo spesso si fa avanti prepotente un sentimento d’impotenza e di solitudine a fronte degli eventi del presente, delle forme di una socialità indifferente, se non paranoide, dei ritmi e dei vincoli che strutturano inesorabilmente la banalità dell’agire nella quotidianità. Frustrante diviene lo scoprirsi senza idee rispetto al cambiamento o senza vie d’uscita all’immaginario incombente di un futuro catastrofico. L’avvertire tutto così difficile imprigiona nell’immobilismo, nel rinviare, nello stare aggrappati a quello che c’è anche se fa star male, come se preservasse comunque dal naufragio. La progressiva estraneazione a noi stessi e all’altro diviene una condizione di sussistenza, ma il vantaggio del peggio (piuttosto che niente) si mostra prima o poi illusorio, a volte diviene fonte di implosione come in un improvviso attacco di panico e altre volte di deflagrazione nella perdita del controllo delle proprie azioni. Non sempre gli stati di crisi personali vengono considerati quali manifestazioni di uno stato sociale degradato, di un’indifferenza collettiva che si è erta a difesa del proprio pur piccolo e insoddisfacente status quo.
Non avere paura e fidarsi degli altri, ascoltare i poveri, stare nel presente non rinviando quello che va fatto, massimizzare il bene che c’è in ogni istante, avere coraggio e non pensarsi soli, è stato anche il messaggio che ha accomunato i ventuno sapienti riuniti a Milano a pensare il futuro “21 minuti – I saperi dell’eccellenza”*, ma il cinema ha il vantaggio del linguaggio dell’arte, riesce ad aprire le vie dell’immaginazione dello spettatore, promuovendo nella dinamica proiettiva e introiettiva un’interazione in prima persona, generatrice di pensieri nuovi e desideri d’azione. Il contributo artistico di Ken Loach sa essere propositivo e anche molto pratico, mentre ci conduce dentro i problemi del protagonista del film e ci fa partecipare della loro evoluzione.
Trovo molto importante una proposta artistica che valorizzi la connessione tra dimensione individuale e dimensione sociale, poiché di questo oggi abbiamo bisogno per farcela a “divenire umani”, a qualificare cioè l’esperienza relazionale umana che ci distingue e ci responsabilizza come specie vivente.
Mentre seguiamo la narrazione filmica, ci troviamo a chiederci: “Come farà Eric a farcela?” Allo stesso tempo stiamo chiedendo a noi stessi: “Ce la faremo?”
Ken Loach propone un metodo, anche provvisorio, che permetta di riconnettersi alla vita, ad un ordine delle cose sconosciuto e profondamente atteso allo stesso tempo. Il regista mostra quanto abbia a che fare con la realtà la capacità di ricordare, sognare, illudersi e quanto potere si fonda nell’immaginazione dei possibili e nella scelta di tradurli in azioni effettive, senza rinviare. Dare e darsi delle nuove possibilità, riprovandoci più volte, può essere fonte di cambiamento, nonostante i fallimenti delle prove e i limiti personali. La creatività e l’immaginazione nel gruppo, soprattutto, ha il potere di ricreare gioco e legame tra i soggetti e di inventare forme non violente ma efficaci di azione collettiva, almeno nei confronti della prepotenza, strafottenza e volgarità di coloro che illegalmente si muovono nel degrado e sfruttano a proprio vantaggio quello spazio sociale da cui la comunità si ritira. Il messaggio del regista sembra chiaro, la fuga e il ritiro a fronte della paura, hanno un tempo di scadenza, oltre una certa soglia non sono più difesa e protezione, si trasformano in oppressione e distruzione di ogni relazione e desiderio di vita.
Non è mai tardi per fare ciò che va fatto e le crisi possono essere affrontate con intelligenza, se sappiamo coltivarla nello scambio reciproco e nell’esperienza di una progettualità civile. Il problema di uno è un problema di tutti prima o poi. “Vita tua, vita mea “ auspicava Luigi Pagliarani, riferendosi al conflitto che sa farsi generativo nella convivenza e allo sviluppo di una conoscenza e progettualità sociale “pro individuo e pro società”.

(Carla Weber)

*Convegno che si è tenuto al Palazzodel Ghiaccio, a Milano, dal 19 al 21 novembre, ideato da InformAzione di Patrizio Paoletti, che ha chiamato ad intervenire sui bisogni della nostra era numerosi pensatori, tra gli altri Ernö Rubik, Giacomo Rizzolatti, Sanjit ‘Bunker’ Roy, Michael Gazzaniga, Rita El Khayat, Erin Gruwell, Tara Gandhi