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La guerrigliera della gravidanza.

In Cina sempre più donne sfidano la legge sul figlio unico. di Sabrina Taddei. / scritto il 27-02-2006

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Zhang Yulan è una contadina di 26 anni ed è mamma di una bambina e di un bambino voluto a tutti i costi perché è tradizione cinese delle campagne che un maschio aiuti la famiglia a coltivare la terra.
La sua storia ci racconta un fenomeno di potere e di distruttività umana e lo fa uscire dall’anonimato.
Per avere il secondo bimbo, Zhang ha dovuto nascondersi e affrontare la violenza dei responsabili della sua comunità che hanno cercato di imporle l’aborto. Il marito è stato licenziato e i 300 colleghi di lavoro sono stati multati di 100 euro, la mensilità di stipendio, perché questa donna ha infranto il codice dell’omertà ed è andata contro la legge che regola il controllo delle nascite dal 1979, ratificata nella legge matrimoniale del 1981 e ritoccata nel 2002.
La politica del figlio unico è stata applicata spesso al limite e oltre i diritti fondamentali della donna e dell’uomo, dimostrandosi un’arma controversa di pianificazione demografica che mette in discussione la libertà delle famiglie e la cultura di una società millenaria, alimentando il drammatico fenomeno degli aborti selettivi dei feti di sesso femminile sia nelle aree rurali che nelle città.
Una ragazza infatti non è ritenuta idonea al lavoro pesante nei campi e il valore del figlio maschio è causa di traffico di minori nel quale, secondo le Nazioni Unite, sarebbero coinvolti in Cina, ogni anno, 250 mila fra donne e bambini.
Si deve ammettere che in questi ultimi vent’anni la possibilità di contenere gli effetti della bomba demografica ha permesso alla Cina di curare, almeno in parte, la piaga della povertà e della fame, consentendo una maggiore scolarizzazione e ricchezza alimentare.
Oggi, questa politica che obbliga ad un unico concepimento e che in caso di violazione impone il pagamento di una multa pari a 15.000 euro oltre alla perdita dei sussidi sociali, è sotto pressione e “il miracolo dello sviluppo” suggerisce alcuni cambiamenti, come la liberalizzazione, passaggio delicato e complesso che deve tener conto della disomogenea applicazione delle norme e delle differenti condizioni di vita di uno Stato così vasto come la Cina.
Nelle metropoli, dove cresce il benessere, la donna non deve più chiedere al datore di lavoro il permesso alla gravidanza, mentre nelle campagne la verifica del figlio unico è affidata alla discrezionalità delle autorità locali, che si appropriano della delega per trasformarla in esercizio di potere. La stessa Commissione nazionale per la pianificazione ha dovuto ammettere che nello Shandong fra il marzo e il luglio del 2005 sono state sterilizzate contro la loro volontà settemila donne, alcune costrette a partorire bimbi morti.
Nelle campagne non esiste la politica di prevenzione, ma solo repressione e violenza.
E’ questo un esempio di negazione dell’ambiguità tra il senso di essere madre e l’appartenenza alla cultura cinese e alle sue vecchie e nuove regoli sociali.
L’indifferenza agita dal regime nega il riconoscimento dell’altro, che smette di esistere, e autorizza la repressione della dignità e dell’identità delle donne cinesi.
Il risultato, non banale, del miglioramento delle condizioni alimentari dei contadini cinesi, conferma la “bontà” della scelta fatta dallo Stato, facendo credere risolto un problema tutt’altro che risolto, che nella sua persistenza e continuità ci segnala la condizione costitutiva del conflitto e la sua dimensione irriducibilmente evolutiva.
“Se la dignità dell’uomo è uno sguardo che chiama, l’indifferenza si profila come una delle forme più epidemiche di distruzione, in quanto basata sulla negazione dello sguardo che riconosce per essere riconosciuto.” (Ugo Morelli – Conflitto. Identità, Interessi, Culture – Meltemi 2006, pag. 69)

(Sabrina Taddei)