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La parola alla parola o la parola alle armi.

di Ugo Morelli / scritto il 21-08-2006

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A perdere sono i civili, ebrei e arabi, ha detto il regista Amos Gitai a proposito della guerra tra Israele e Libano. Si potrebbe aggiungere: a perdere è la civiltà o le possibilità della civilizzazione che dipendono dal dialogo e dal linguaggio. Quando smettiamo di parlarci facciamo la guerra. Parlandoci possiamo giungere alla condivisione o al disaccordo, ma fino a quando ci parliamo riusciamo a non degradare nell’antagonismo, nel gioco dell’uno contro l’altro, nel mors tua vita mea. Haifa è la città israeliana in cui la convivenza tra arabi ed ebrei costituiva un modello. Si trattava, del resto, di una manifestazione di dialogo e convivenza solo più intenso di quello che, come una specie di tessitura bassa, riguarda la maggioranza delle popolazioni arabe, palestinesi e israeliane che vivono nelle aree in cui da più di mezzo secolo non si riesce a trovare le condizioni per una convivenza possibile. Se si legge la situazione dal di dentro si scopre uno dei volti più assurdi e amari della guerra. Mentre le armi seminano morte le persone tessono relazioni e le alimentano, si sentono per dirsi come stanno e anche per esprimersi vicinanza e solidarietà, indipendentemente dall’appartenenza etnica e religiosa. Mentre le diplomazie istituzionali rompono ogni forma di dialogo possibile e cedono la parola alle armi, quella che con una felice espressione è stata chiamata diplomazia popolare, agisce invisibile e non raccontata dai mass-media, per generare vicinanza e solidarietà, condivisione del dolore e forme di cooperazione e di aiuto. Questa rete intensa e bassa non riesce a perforare la patina dell’odio organizzato né quello degli interessi istituiti e finisce col creare un mondo parallelo di tolleranza intercomunitaria da un lato e di sangue e disperazione dall’altro. Eppure le esperienze di integrazione e cooperazione sono diffuse e numerose e meriterebbero voce per la creazione di forme di dialogo effettivo e fattivo che solo può prevenire la distruttività dell’odio e della guerra. La minoranza palestinese è chiamata ad Haifa, secondo porto d’Israele, “araba israeliana”; essa è abbastanza vicina agli ebrei di tradizione sefardita, che a loro volta hanno subito forme di discriminazione da parte degli ebrei ashkenaziti. Le sfumature e le zone di mediazione, le aree di convivenza delle differenze, sono quelle in cui più ampi sono i margini di gestione non violenta e distruttiva dei conflitti. Sono proprio quelle le aree che tendono a prosciugarsi quando i conflitti si esasperano e degenerano in antagonismo e guerra guerreggiata. Quando la parola cede il posto alle armi. Uno degli aspetti più critici dell’intera storia delle guerre e delle azioni terroristiche nella regione del vicino oriente, anche questo troppo spesso trascurato, riguarda il modo in cui i conflitti di interesse, spesso superiori agli stessi stati e certamente alle stesse popolazioni coinvolte, vengono trasformati in conflitti identitari e religiosi. Di certo siamo in una realtà tra le più ricche di storia e l’intreccio tra identità, religioni e tradizioni è tra i più inestricabili. Basti pensare che la grotta di Macpela, a Hebron, luogo della tomba di Abramo, è riferimento principale di culto per tutte le tre grandi religioni monoteiste. Ma è difficile smentire che siano gli interessi a muovere verso l’utilizzo strumentale delle identità e a fomentare una distruttività fratricida, certamente alimentata dalle differenze di culture e di religione che si sono sedimentate nel corso dei secoli. Proprio questo è un punto importante dell’intera questione. E richiama direttamente il ruolo della cultura, dell’educazione e degli intellettuali, in particolare richiama il ruolo degli scrittori e dei poeti. Un testo chiave che permette di analizzare il fallimento delle posizioni e del ruolo degli intellettuali, degli scrittori e della cultura in genere, nell’attuale guerra tra Israele e Libano, è proprio l’appello per la tregua firmato da tre tra i più importanti scrittori israeliani, David Grossman, Avraham B. Yehoshua e Amos Oz. L’appello è stato pubblicato sull’edizione in ebraico di “Haaretz”, uno dei più importanti giornali israeliani, il giorno 6 agosto, nel pieno dello svolgimento delle operazioni militari. In particolare Yehoshua, motivando l’appello, ha dichiarato: “la gente deve capire la base etica di questa guerra, se non in tutte le sue mosse, almeno nella maggior parte di esse, e il fatto stesso che siamo entrati in guerra”. Lo stesso Yehoshua più avanti dichiara che in una guerra non esistono vincitori. Dichiara, inoltre, che “Il nostro obiettivo è la pace e solo questa è la vittoria”. Il problema principale è che dal punto di vista di chi la ingaggia e conduce, ogni guerra ha almeno una buona ragione per essere definita giusta. Né è possibile distinguere tra guerra “buona” e guerra “cattiva”. Lo stesso vale per il principio di causalità che tenta di stabilire di chi è stata la prima mossa, in quanto è difficile definire che cosa possa essere ritenuto fattore scatenante, se si presta attenzione alla catena di eventi in cui diverse forme di violenza risultano collegate e quella fisica non è sempre la peggiore. Una gerarchia delle motivazioni per degradare nell’antagonismo distruttivo è possibile solo da un punto di vista singolo. Una posizione che si ponga come terza dovrebbe essere in grado di assumere la natura della relazione tra le parti in causa come oggetto d’analisi e come opportunità di intervento di mediazione. L’assunto da cui partire dovrebbe però essere che la guerra sia un esito delle relazioni e della cultura e come tale bisognerebbe considerarla. In questo modo appare come una scelta umana e non come un destino ineluttabile. In quanto scelta può essere cambiata e la guerra può essere prevenuta. È difficile immaginare che con un’aggressione si possano risolvere le contraddizioni dell’area del vicino oriente. Come aveva capito Rabin, è necessaria una politica regionale e soprattutto una politica attenta all’altro. L’isolamento di Israele è anche l’esito di una carente politica del dialogo con i problemi e le prospettive dei paesi vicini. I contrasti dipendono anche dalla non disposizione a farsi carico dei problemi degli altri e dei palestinesi in particolare. Essere reciproci nel mors tua – vita mea non porta molto lontano e favorisce le occasioni di passaggio dal conflitto all’antagonismo. Una pace può nascere solo dalla cooperazione e dal dialogo, non certo dall’aggressione. Il riconoscimento di non bastare a se stessi è forse uno dei fondamenti della cooperazione. La stessa intelligenza consiste nel saper riconoscere e apprezzare l’intelligenza di un altro. Con queste premesse sarebbe probabilmente possibile valorizzare le molteplici esperienze di cooperazione, collaborazione e solidarietà che, a volte in modo carsico, attraversano etnie, religioni e valori, accomunando i diversi. Sono le azioni concrete e quelle cooperative in particolare che possono condurre oltre le dichiarazioni di intenti o le sole disposizioni o risoluzioni del diritto internazionale. Abbiamo, con questa guerra e per l’ennesima volta, potuto constatare come anche le posizioni più profonde, quelle di coloro che propongono di solito ricchezza di pensieri e apertura di vedute, non riescono a tenere una intelligenza del cuore rispetto alla guerra. Non ci riferiamo qui alla rozzezza di posizioni come quelle di Angelo Panebianco, che è giunto a sostenere la liceità della tortura per combattere il presunto terrorismo, salvo poi dire che l’ha fatto per fare scandalo, ma che in realtà voleva richiamare lo stato d’eccezione, tema di cui, sempre secondo Panebianco, “un letterato” come Claudio Magris, che ha giustamente reagito, non sarebbe al corrente. Non si tratta di scandalo ma di provocazione irresponsabile, ancorché infondata, perché uno stato di eccezione trova sempre i motivi per essere dichiarato. Bontà sua Panebianco dice anche: “Capisco la difficoltà psicologica che hanno tanti a prendere atto della realtà”; sono gli altri che “hanno”, naturalmente quella difficoltà, che dobbiamo presumere non riguardi il Panebianco. Non ci riferiamo a questi “realisti” che pretendono di attraversare il mondo con sguardo “oggettivo”, bensì a chi, come gli scrittori Amos Oz, Avraham Yehoshua e David Grossman, hanno portato in campo il tormento di ritenere inevitabile la guerra all’inizio e di riconoscerla per quella che è, una scelta inutile e scellerata, alla fine. Il dolore di Grossman si è misurato col suo apice, quando il figlio Uri è rimasto vittima della guerra da soldato, non appena egli aveva sottoscritto un appello per la fine delle ostilità. Una storia tremenda e emblematica che dovrebbe ulteriormente portare a concentrarsi sulle condizioni della prevenzione e del dialogo, riconoscendo che né un kamikaze, né un’aggressione distruttiva nascono dal nulla, ma hanno a che fare con la cattiva gestione delle differenze e dei conflitti e con la mancata valorizzazione delle possibilità cooperative. Possiamo divenire diversi, ma per riuscirci dobbiamo cercare insieme, e molto.

(Ugo Morelli)