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La vita segreta delle parole: quando il dolore acquista cittadinanza

di Antonio Castagna / scritto il 18-04-2006

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“Hai mai lavorato in un nostro ospedale?” chiede il dottore ad Hanna (Sarah Polley), infermiera di poche parole appena arrivata sulla piattaforma petrolifera per curare Josef (Tim Robbins). La donna, immigrata dai Balcani, e che nel paese d’arrivo finora ha fatto l’operaia in fabbrica, è risentita dalla domanda. Si limita a ribadire di essere un’infermiera. Il medico allora si trova in imbarazzo, le rivela che lui ha sposato una donna colombiana, che non ha pregiudizi verso gli stranieri. “Lei no, ma io si”, replica Hanna, rivelando così una cosa che facciamo fatica a vedere e a comprendere, cioè che l’altro è altro irriducibilmente e che è portatore di autonomia, è portatore di esperienze, pensieri e pregiudizi tanto quanto noi, che in nessun modo possiamo sentirci autorizzati a pensare e parlare a suo nome, nemmeno a fin di bene. È un brevissimo scambio, all’inizio del film, ma micidiale, perché ci invita a entrare con delicatezza nella vita della protagonista, suggerendo che il rispetto dell’altro implica anche la ricerca della giusta misura, oltre che buone intenzioni.
La vita segreta della parole, della Catalana Isabelle Coixet, è un film ambientato su una piattaforma petrolifera, dove la protagonista Hanna arriva per curare Josef che è rimasto ustionato in un incidente. È un film di silenzio e solitudine. Anche l’ambientazione contribuisce alla coerenza della situazione, perché la piattaforma è abitata da uomini che solo in rari momenti trovano le parole per svelare alcune delle pieghe dell’anima.
La storia ci conduce con mano delicata alla scoperta delle parole che non si possono dire, perché tenute dentro da un insieme di paura, dolore e senso di colpa, che prende le vittime dei genocidi e delle violenze a questi connesse. Hanna impara durante il film a fidarsi un po’ delle altre solitudini che abitano la piattaforma, di altre parole ripiegate e indicibili. Josef, momentaneamente cieco, impara a conoscerla attraverso la voce e le poche parole che si scambiano durante le cure, e dall’odore che la vicinanza dei corpi permette di sentire. Josef parla e racconta di sé, e senza mai forzare chiede ad Hanna di fare lo stesso, fino a quando arriva un momento in cui le parole diventano possibili.
Allora, forse, a quel punto si apre uno spazio inedito dove il conflitto presente in Hanna, tra il desiderio di vivere e il senso di colpa per essere sopravvissuta mentre accanto a lei moriva, tra le altre, la sua migliore amica, sarà legittimato a vivere senza essere risolto. È in quello spazio che ci sarà posto anche per Josef e quindi per aprire lo sguardo al futuro. Il finale, a mio avviso, non è ingenuamente consolatorio, forse è un po’ frettoloso, ma ha il merito di non mostrare alcuna prospettiva salvifica. Le altre voci dentro Hanna, infatti, non si placano, il passato non passa, le cicatrici reali e metaforiche non guariscono, ma sono elaborate nella costruzione di qualcosa che sia capace di contenerle in maniera autentica.
La vita segreta delle parole riesce a parlare delle guerre e delle violenze degli anni novanta nei Balcani, da un punto di osservazione sghembo, attraverso una vicenda individuale eppure rappresentativa, realistica eppure metaforica e sospesa, permettendo una distanza che mentre ci consente di osservare le pieghe più segrete di un individuo, è capace di restituirci contemporaneamente il dolore che quel tempo ha creato e l’indifferenza attraverso la quale rimuoviamo i dolori altrui e talvolta, spesso, anche i nostri.

(Antonio Castagna)