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Guardare in faccia la guerra, né senza macchia né senza paura.

di Ugo Morelli / scritto il 24-07-2006

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Poche immagini come quelle dei bambini israeliani che firmano i proiettili che i cannoni spareranno sul Libano dal Nord di Israele, parlano del senso della guerra, delle sue ragioni e delle sue implicazioni. Con la guerra bisognerebbe fare sul serio. Queste immagini ridisegnano la presunzione di innocenza e la divisione tra buoni e cattivi. Sappiamo molto poco, troppo poco, delle ragioni della guerra e delle vie della pace, per esprimere indicazioni che non siano morali. Le indicazioni morali sono certamente importanti, ma sono relative; parlano più di chi le esprime che del fenomeno. Ci possono aiutare a comprendere le diverse posizioni ma non sempre aiutano a comprendere il fenomeno e le possibili vie per affrontarlo. Quella che non abbiamo è una scienza dei conflitti. Per essa non abbiamo investito e non investiamo. Certamente non quanto lo abbiamo fatto e lo facciamo per la guerra. E questo è gia un elemento analizzatore importante, senza giungere a concludere che la guerra è inevitabile, né che sarebbe un fenomeno naturale come la grandine o lo tsunami. Oggi, peraltro, sappiamo che neppure la grandine e lo tsunami sono fenomeni solo “naturali”. Viviamo in un ecosistema di cui facciamo parte e psiche, corpo e ambiente di vita sono interconnessi più di quanto avessimo mai immaginato presumendo la nostra eccezionalità e superiorità di specie, come homo sapiens. La questione principale con cui oggi ci misuriamo è se per caso quella superiorità presunta, ovvero i nostri tratti distintivi, non configurino uno svantaggio, alla luce dell’uso che ne facciamo e delle scelte che ne facciamo derivare. Per questo desta una certa impressione l’ennesimo scritto, come sempre in tono aristo-radicalchic di Adriano Sofri su la Repubblica di lunedì 17 luglio. La critica alle posizioni “pacifiste” orientate a dire sempre no e solo no alla guerra, porta Sofri a sostenere che la negazione di “qualunque impiego della forza militare nei luoghi di crisi è uno slogan infantile”. Così come, criticando Gino Strada, Sofri definisce “una sciocchezza colossale” sostenere, come Strada fa, che a Kabul oggi si sta peggio che sotto i taliban. La virulenza della critica di Sofri è evidente. Le sue implicazioni molto significative. Se vi è inefficacia nelle posizioni dei “mestieranti della pace a parole”, probabilmente dipende non dal fatto che dicono no alla guerra, ma dal loro limitarsi a dire “no”, per una questione di principio. Quanto alla dimesione infantile della posizione, vi sono poche vie per cercare di non degradare nell’antagonismo e nella violenza distruttiva, se non quella della valorizzazione delle possibilità che ci possono derivare dall’ascolto e dall’attenzione al nostro puer interno, come sosteneva Gino Pagliarani. Solo uno sguardo e una prassi fondate sull’analisi e la valorizzazione delle ragioni affettive profonde e del loro intreccio con l’esperienza socio-politica possono, forse, portarci a comprendere anche le ragioni della guerra e delle possibili vie di elaborazione non distruttiva dei conflitti. Conflitti che non sono sinonimi di guerra ma di incontro di differenze piccole e grandi e di elaborazione delle dinamiche che la differenza comporta. Facciamo la guerra perché non investiamo nell’imparare a gestire in modo non distruttivo i conflitti. Questa ipotesi merita attenzione e perseguirne l’approfondimento vuol dire porsi domande impegnative sulla distruttività umana e sulle dinamiche che portano alla degenerazione dei conflitti. Se si considera la guerra come l’esito delle relazioni umane e come evento culturale, si assume l’ipotesi che essa sia evitabile gestendo le relazioni in modo differente e istituendo culture non distruttive di gestione del conflitto. Se si assume la guerra come naturale e inevitabile, ne deriverà che ci sarà sempre una buona ragione per farne una. Seguendo la riflessione di Amos Oz sul Corriere della Sera del 18 luglio 2006, il grande scrittore israeliano così impegnato nella critica all’intolleranza e alla violenza, giunge a dichiarare che l’attuale guerra in corso è una guerra giusta. La motivazione addottata da Oz per dichiarare giusta l’azione bellica israeliana in Libano è che Hezbollah rappresenta un nemico che sferra un attacco sostenuto da Siria e Iran. Secondo Oz le caratteristiche di Hezbollah sono quelle di un nemico con tutte le variabili tipiche di un nemico quando è tale. Questo è il punto. In ogni situazione ci sono le condizioni per giungere a definire “nemico” qualcuno. Nei conflitti culturali e identitari, i processi di attribuzione svolgono un ruolo decisivo. Certo Hezbollah agisce e uccide, ma è proprio la capacità di investire in gestione dei conflitti, una possibile via per prevenirne la degenerazione in guerra. Che fare per abbassare la paura e l’attribuzione di “nemico” in modo da gettare tutte verso l’esterno e verso gli altri le responsabilità? Nessuno conosce la risposta. In primo luogo però è possibile cercare di mettersi di fronte ad un fenomeno come la guerra pensando che ci riguarda tutti. Nessuno è senza macchia e senza paura. Nemici si diventa, in base ad un certo modo di gestire le relazioni e ad una storia. Ad un certo punto non ci si ricorda più il percorso che porta a divenire nemici e le ragioni che lo determinano. Si finisce nel terrore e l’altro diviene nemico per definizione. Abbiamo slegato l’effetto dai suoi meccanismi di determinazione e la guerra appare come l’unico mezzo per intervenire. Appare cioè inevitabile. L’immobilismo e la rottura di ogni filo di immaginazione possibile sono paralizzanti. La guerra si propone come la soluzione unica. Solo attivando vie originali, alternative e creative, ma anche cercando in noi le ragioni di ciò che accade e dei comportamenti degli altri, si può immaginare di giungere ad una elaborazione non distruttiva dei conflitti.

(Ugo Morelli)