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Chi si appropria della 'ragione'?

di Luca Mori / scritto il 01-02-2008

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Il Rettore dell’Università La Sapienza di Roma ha invitato il Papa a tenere una lezione magistrale all’inaugurazione dell’anno accademico. In una lettera, 67 professori hanno manifestato il proprio dissenso. Gruppi di studenti hanno protestato contro l’iniziativa, dichiarando di volerne ostacolare lo svolgimento.
Esito: Benedetto XVI ha rinunciato a recarsi in Sapienza; il cardinale Camillo Ruini ha convocato un’adunata di solidarietà in Piazza San Pietro, per l’Angelus del 20 gennaio; i politici più in vista hanno fatto a gara nel trovare le parole per esprimere indignazione e rammarico, ma non si è arrivati alle “scuse ufficiali” che avrebbe preteso il dimissionario Mastella; successivamente, il cardinale Angelo Bagnasco ha aperto i lavori del Consiglio permanente Cei, occupandosi anzitutto dell’agenda politica italiana (unioni di fatto e legge sull’aborto) e, tornando sul caso dell’Università, ha fatto allusione a uno ‘stop’ al Papa da parte di una autorità politica.
Dal Governo, subito, smentite e precisazioni.
Si è detto che a Benedetto XVI è stata tolta la libertà di parola. Dalla Radio cattolica a più alta pervasività sul territorio nazionale (Radio Maria), padre Livio ha fatto considerazioni di questo tenore: «Non escludo, come dicono alcuni giornali, che ci siano gruppi satanici tra questi studenti […]. Non facciamoci illusioni: Satana è dappertutto, anche nelle Università. Non mi meraviglio che ci siano dei professori cornuti con tanto di tridente e di coda […]. Dietro questi personaggi c’è sempre il Maligno. State tranquilli, che è così, non mi posso sbagliare su queste cose […] Se tu vai lì con quella gente lì, se li spruzzi di acqua senta esce fuori il fuoco, fumano… fumano quella gente lì […] come avviene negli esorcismi più tremendi».
‘Demonizzazione’ – alla lettera – di chi la pensa diversamente, semplificazione e incapacità di distinzioni.
Nell’episodio non è in gioco la libertà di parola tout court, ma il senso dell’autonomia di cornici distinte. Quanto sia ‘sana’, ‘reale’ o realmente desiderata, da varie parti, questa autonomia, è questione che va al di là di questo caso specifico. Ma chi, nella Chiesa, invoca la libertà di parola e arriva a citare l’illuminista Voltaire – attingendo a una corrente che non è certo congeniale al Papa – probabilmente non inviterebbe un’autorità di un’altra religione, o un ateo, a tenere una lezione magistrale su Dio e sulla verità della fede, durante la cerimonia d’apertura di un Giubileo, ai cattolici riuniti per l’occasione; né, verosimilmente, in occasione di molte altre festività.
Vanno quindi tenute presenti le cornici e i modi: il Papa non è stato invitato a un dibattito – che sarebbe invero interessante, con filosofi e scienziati di varia estrazione – ma ad una lezione magistrale per l’inaugurazione di un anno accademico. Anche su questo punto, tuttavia, si potrebbe disputare a lungo: è uno di quei casi in cui chi la pensa in un modo o nell’altro ben difficilmente sarà disposto a cambiare idea.
Veniamo a un altro aspetto della vicenda. Nella rubrica Bussole di Repubblica (18 gennaio 2008) Ilvo Diamanti vede nella mancata lezione del Papa in Sapienza una ragione per parlare di “democrazia minima”. Da tempo oramai – e come non mai in questi giorni – ci sarebbero ben altri motivi per usare quell’espressione riferita all’Italia. Diamanti prosegue nella sua indignata ricostruzione della vicenda, arrivando a presentarci un pontefice «eminente filosofo e teologo».
Qui è possibile avanzare altre riserve, e motivarle. Capitava a Ceausescu e consorte, che il fatto di detenere il potere garantisse loro il titolo di ‘miglior cacciatore’, ‘miglior pescatore’, ‘migliore biologa’ della Romania, e simili. Queste mistificazioni sono tra gli effetti del barbaglio di cui si circondano il potere e la figura attorno alla quale si possono chiamare all’adunata, a comando, folle osannanti.
Va però considerato, più in dettaglio, il discorso che Benedetto XVI avrebbe fatto, mettendosi così alla ricerca dell’eminente filosofo di cui Diamanti ci racconta. Il pontefice, nella sua allocuzione, dichiara di parlare come ‘vescovo’ di Roma: dunque, in senso etimologico, si presenta come ‘sorvegliante’. Presentandosi poi come pastore della sua comunità – ricorrendo alla nota metafora, che risale almeno ai Sumeri – Benedetto XVI dice che il Papa è «diventato sempre di più anche una voce della ragione etica dell’umanità». Nonostante le concessioni, distribuite qua e là, a formule liberali – tutte puntualmente sottolineate dalla stampa come incontrovertibile esempio di apertura al dialogo – nel documento si avverte un climax in tutt’altra direzione.
Del resto, che si ritengano un segnale di apertura al dialogo dichiarazioni come “la fede non si può imporre”, è già sintomo di una distorsione prospettica. Citando brevissimi passaggi o concetti di Socrate e Aristotele, John Rawls e Jürgen Habermas, Benedetto XVI intende dimostrare che, consegnando la pretesa di verità alla “ragione pubblica” o alla filosofia lasciata a se stessa, non si può trovare un criterio per stabilire cosa sia ragionevole, né si arriva alla vera ragione, o alla verità. Per rimediare a questa impasse, presenta la filosofia e la teologia come «custodi della sensibilità per la verità», come una «coppia di gemelli». Parla anche di religioni, ma ha in mente anzitutto quella cristiana, e ancor più precisamente la variante cattolica. Prescrive alla filosofia (“la filosofia deve…”) di non chiudersi «davanti a ciò che le religioni ed in particolare la fede cristiana hanno ricevuto e donato all’umanità come indicazione di un cammino»; più precisamente, avverte che «la storia dei santi, la storia dell’umanesimo cresciuto sulla base della fede cristiana dimostra la verità di questa fede nel suo nucleo essenziale».
È una concezione della “dimostrazione” che potrebbe essere oggetto di un interessante dibattito filosofico e scientifico, ma è legittimo aspettarsi che – in nome della verità, o del senso della verità – uno scienziato e un filosofo possano avanzare riserve davanti a questa perentoria teorizzazione del pontefice. La riserva che il dissenziente volesse avanzare, tuttavia, verrebbe immediatamente squalificata dall’assunto secondo cui il messaggio della fede è «forza purificatrice per la ragione stessa, che la aiuta ad essere più se stessa»; altrimenti detto, la teologia ricorda alla filosofia il suo «vero compito»: senza farsi orientare nel cammino dal vero nucleo della fede cristiana, la ragione inevitabilmente inaridisce, e la filosofia corre il pericolo di ridursi a positivismo.
In conclusione, non sembra esserci molto per giustificare l’attribuzione all’autore del titolo di “eminente filosofo”. Al massimo, è il discorso che ci si poteva aspettare da un catechista che abbia studiato qualcosa di filosofia, e che per qualche ragione faccia la sua lezione di dottrina parlando della filosofia in termini generali (“la filosofia”, appunto), citando pochissime fonti e riducendo il dibattito degli ultimi tre secoli su uomo e animale, sulla verità, sull’interpretazione, sul senso, etc. a un “pericolo di positivismo”, da cui potrebbero salvarci soltanto la fede cristiana e il Papa, come “voce della ragione etica dell’umanità”. Non è poi così incomprensibile che alcuni professori abbiano protestato di fronte alla prospettiva di un’ideologica lezione di catechismo ad apertura di un anno accademico, senza ragionevole possibilità di contraddittorio.
Ben venga, invece, un dibattito davvero aperto, tra il Papa e altri eminenti religiosi, teologi, filosofi, scienziati, storici, antropologi, e così via; in un confronto, però, per una volta tra pari, in cui, tra i partecipanti, non ce ne sia uno che appaia trasfigurato dal potere, quale depositario della ragione divina. E in cui tutti non escludano dall’inizio di poter cambiare idea.
Ma i vincoli epistemologici e di fede vanno oltre le buone intenzioni: sanno attivare tutte le risorse retoriche ed escogitare le peripezie argomentative più stravaganti e parziali, presentandole come naturali e oggettivamente valide.

(Luca Mori)