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Elogio della paura

di Carla Weber / scritto il 21-05-2008

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Ascolto le prime dichiarazioni dei neo-ministri del governo Berlusconi rilasciate ai giornalisti e passate al telegiornale. I giornalisti pongono domande relative al carico dell’impegno assunto con la vittoria elettorale, le risposte ostentano tranquillità e sicurezza. Mi colpisce la dichiarazione del neo-ministro dell’Interno Maroni che risponde perentorio, come se avesse ricevuto una domanda impropria, inopportuna: “Nessuna paura, è chiaro e semplice quello che c’è da fare, lo abbiamo detto e adesso lo faremo.” Ho riflettuto sul fatto che non mi ha dato alcuna sicurezza sentire questa risposta. Il ministro voleva forse dire che era pronto ad iniziare, ma il messaggio risultava vuoto nella sua tautologia. Proponeva la sua sicurezza espressiva a garanzia di un buon esito dell’impegno assunto. Sembrava dicesse “se io sono sicuro potete stare sicuri.”
Trovo rilevante, in tempi come questi ultimi rivendicare il valore della paura, della paura legittima ad affrontare responsabilmente quello che una nuova impresa comporta. La paura riguarda la consapevolezza del livello di indeterminazione ineliminabile nelle azioni di governo. Fino a quando ci dichiariamo una democrazia l’altro ha diritto di parola, di presenza, di sostegno, di realizzazione. Come non avere paura dei limiti esistenti a rispondere a tutto questo? Non è certo dalla negazione della paura che nasce una pensabilità nuova, la possibilità di sollevarsi da angoscianti criticità e dalla crisi. So che devo tenermi la paura, starci dentro alla ricerca di un’idea da poter condividere con altri, prepararmi, mediare, confliggere per rispettarsi e riconoscersi in una progettualità comune. Come affrontare i conflitti in gioco se vengono negati prematuramente o assunti quali dati certi e conosciuti pregiudizialmente? La complessità delle questioni economiche, sociali, ambientali richiedono competenze specialistiche, lucidità di analisi, etica della prassi, mentre si tende alla persistenza del già consolidato nella tendenza a naturalizzare le forme e gli strumenti culturalmente elaborati per governare, ritenendoli immodificabili. Le urgenze, la necessità di decidere induce a considerare la complessità come complicazione o addirittura confusione e a semplificare arbitrariamente, a separare ed escludere ciò che non si riesce a controllare. L’esibizione di una determinazione poggia su istanze di controllo più che di governo dei conflitti di una società complessa. “Prima c’è l’azione” scrisse Freud per indicare la modalità evacuativa delle angosce. La scissione e l’espulsione sono modalità primitive di soluzione dei conflitti.
Detto questo non posso trascurare che proprio con queste posizioni dichiarative di soluzioni semplici e pragmatiche il partito della Lega si è affermato nelle scelte degli elettori sia di destra che di sinistra. Una dichiarazione sicura sembra coincidere con la sicurezza stessa. La delega politica viene interpretata quale delega a dare risposte che eliminano la paura. La paura viene assunta come un fenomeno identificabile in alcune questioni collettivamente sentite e in relazione con la presenza pericolosa dell’altro. Il pragmatismo dichiarato richiede una semplificazione e una riduzione della complessità dei fattori in gioco, privilegia relazioni causali e deterministiche. Fatto il governo, i problemi verranno affrontati. La posizione politica assunta è “potete stare tranquilli, adesso ci pensiamo noi”. Le riflessioni di Giovanni Sartori sul Corriere della sera del 10 maggio non erano certo incoraggianti rispetto alle competenze della squadra di governo, ministeri importanti assegnati a ministri “a qualificazione zero”. Ma ciò non sembra rilevante, poiché del reclutamento dei ministri risponde il premier a cui sono state consegnate le paure. “Mandare Berlusconi al potere è come rinunciare plebiscitariamente ai diritti e ai doveri della partecipazione” ha scritto Emanuel Richter su Die Zeit (vedi Internazionale 743; 27). La maggiore parte dei cittadini si è dunque tolta un pensiero votando e ora attende le promesse soluzioni? La regressione rispetto alla partecipazione politica e l’affidamento alla leadership di Berlusconi mostra il tentativo di superare una debolezza politica che il cittadino vive. La domanda di protezione e sicurezza ha avuto il sopravvento. Sono entrate in corto circuito paure diffuse collettivamente riguardanti la sicurezza personale, segnali di perdita di un benessere acquisito, di condizioni economiche e ambientali proprie di un paese nord-occidentale. È possibile, oggi, occuparsi di queste paure per renderle generatrici di altre pensabilità politiche, adeguate alle sfide del tempo presente? In "Crisi della pensabilità della polis" (articolo pubblicato nel sito www.polemos.it, sezione "paper") ho riflettuto sulla necessità di istanze mediatrici delle angosce presenti nella complessità del presente. Sempre più incerta diviene la possibilità di una propria individuazione nel definirsi variegato di una collettività. Si fa difficile la doppia esperienza di realizzazione di una propria autonomia distintiva e di riconoscimento di un’appartenenza che rende esistenti. Si dovrebbe riprendere dai luoghi dell’educazione e della formazione, della produzione di cultura soprattutto per accrescere il livello di coscienza rispetto alla nostra esperienza, alle idee che abbiamo e alle scelte che facciamo in relazione agli altri.
Il sentimento di insicurezza e la paura dell’altro vanno affrontati per regolare meglio la convivenza in modo che possa essere generatrice di innovazione e trasformazione sociale. Il negare ideologicamente i problemi di sicurezza da un lato e il cercare consenso politico attraverso essi dall’altro, hanno portato a considerare il valore delle norme per la convivenza civile un fatto di parte, anziché un atto necessario di responsabilità di governo verso tutti i cittadini. Si è persa l’occasione di lavorare, mediante forme di partecipazione democratica, agli effettivi bisogni di una convivenza multietnica, già presente nel nostro paese e indispensabile all’economia di un paese che per esistere non può escludersi dal resto del mondo. Il non occuparsi di questo ha moltiplicato le angosce, le spinte giustizialiste, le paranoie collettive, le paure cioè hanno assunto una forma indifferenziata e massificata con esiti drammatici e a volte tragici.
La paura è un’emozione molto arcaica che ha svolto una funzione importante nell’evoluzione della specie umana. A livello personale, tollerare una certa misura di paura è necessario: rende consapevoli del rischio, mobilita la ricerca e l’esplorazione dell’ignoto, affina l’attenzione, regola le capacità relazionali e l’aggressività, sviluppa strategie d’azione. A livello collettivo diviene un’emozione che tende a fare massa, poco gestibile poiché è vissuta da corpi che non hanno margine di elaborazione, ed essendo intollerabile non può che essere evacuata in un’azione che riempie quel vuoto spaventoso, insopportabile. Non è della paura che si deve avere paura, ma di quel vuoto di pensabilità che la trasforma in violenza e distruttività.
Per questo penso che abbiamo bisogno di rendere più sana la nostra democrazia con l’azione politica, intesa quale partecipazione attiva al bene collettivo, alla definizione delle regole della convivenza sociale. L’espressione del portato creativo individuale e lo scambio produttivo tra diversità richiede la corresponsabilizzazione alla “cosa pubblica”. Va cercata, desiderata, voluta affinché non emergano i rischi di una regressione pre-democratica. A fronte di forme di fragilità democratica, i cittadini italiani sembrano non riconoscere il potere d’azione che ciascuno ha per trasformare le esperienze di impotenza, di abuso di potere, di sopruso dei diritti, di disuguaglianza nei doveri, e così via. La paura che dobbiamo avere è soprattutto quella dell’abdicazione all’essere cittadini. La paura, l’insicurezza che l’altro, lo straniero ci attiva è soprattutto la paura del non potere più fare a meno dell’altro.
Oltre alla definizione delle regole per una civile convivenza, abbiamo bisogno di affrontare la paura dell’altro con la conoscenza dell’ignoto, la consapevolezza della posta in gioco, la coscienza di un’umanità da co-evolvere. La paura dell’altro non va negata, è utile alla reale conoscenza, mobilita la ricerca di modi diversi per regolare i rapporti, dà segnali importanti per l’individuazione delle condizioni da perseguire per evitare gravi malintesi, esperienze traumatiche e prevenire eventi tragici. È la paura di non farcela, di rischiare, di perdere a renderci capaci di consapevolezza e di scelta, a farci agire con intelligenza e responsabilmente.

(Carla Weber)

Link collegati: Crisi della pensabilità della polis