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I ragazzini di don Puglisi: la mafia è bella, dà soldi facili.

Felice Cavallaro, il Corriere della Sera, 22 gennaio 2005 / scritto il 23-01-2005

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Il regista Faenza ha intervistato i giovani del quartiere Brancaccio mentre girava il film sul sacerdote. «La battaglia del prete? Ma chi glielo ha fatto fare?»

I bambini di Brancaccio recitano se stessi e dal film sul massacro di don Pino Puglisi un brivido attraversa la platea quando, come un pugno allo stomaco, un ragazzino con gli occhi cattivi alza una mano quasi per schiaffeggiare quell' angelo: «Fare gli sbirri significa fare gli spioni». Ed è niente. Perché queste sono «cose di cinema», come forse potrebbe ripetere Totò Riina davanti «Alla luce del sole», fra dialoghi ed inquadrature di Roberto Faenza, con Luca Zingaretti nei panni del primo martire di mafia ucciso un anno dopo Falcone e Borsellino nel Bronx di Palermo e adesso beatificato dalla Chiesa. E' niente perché centinaia di studenti accorsi ieri sera nell' aula magna di Lettere, a Palermo, per un dibattito con regista ed attori sono stati sovrastati dal buio di un film parallelo, un drammatico reality, un film-verità proiettato sopra la cattedra: lo sconvolgente back-stage della pellicola, un documentario che non vedremo al cinema, in parte proposto ieri sera da Raitre. Ecco i bambini di questa capitale ancora malata di mafia. I bambini che recitano e quelli che li scrutano sfottendoli. Faenza gira e alle sue spalle con un' altra macchina a volte celata, a volte accesa senza farlo capire, si muove un secondo regista, Filippo Macelloni, che interroga e registra risposte agghiaccianti. Padre Puglisi? Non ha più di dodici anni il primo scugnizzo che mastica un cattivo italiano: «Faceva cose giuste. E una sbagliata. Diceva di non dovere esserci più mafia. Ma chi glielo faceva fare? E' stato lui a cercarsi la morte». E partono le note laceranti di una fisarmonica triste. Ma non c' è bisogno della colonna sonora. L' ansia monta nella ferocia di un altro bimbo: «Don Puglisi ha sbagliato, si è fatto ammazzare perché voleva far uscire i ragazzi dalla mafia. Se l' è meritato». Così, diventano poca cosa perfino le prime sequenze del film da ieri proiettato in tutte le città. Perché l' orrore delle scommesse su cani che s' azzannano, incattiviti lanciando gattini vivi nelle loro gabbie, potrebbe pure apparire come l' invenzione di una sceneggiatura eccessiva. Ma fra le mura sberciate di un quartiere trasformato in scuola di malavita per furti, spacci e traffici incoraggiati da goffi scagnozzi prende corpo una infanzia disperata. Ed è il secondo film prodotto sempre da Elda Ferri a mostrarla nella crudezza di interviste sulle quali «nessuno potrà dire che si vuole infangare la Sicilia», come spiega Corrado Fortuna, l' attore palermitano di «My name is Tanino», qui nei panni del vice parroco di don Puglisi, padre Gregorio Porcaro. Ed è con questo vero ex vice parroco, poi spogliatosi dell' abito talare, che Fortuna va in giro per Brancaccio seguito dalla cinepresa di Macelloni. Sono loro, il vero ex prete e l' attore che lo interpreta, ad intervistare i bambini di Brancaccio ricevendo mazzate. Come quella di uno sciuscià dei nostri giorni: «Falcone e Borsellino sono morti perché stavano arrivando alla mafia. In fin dei conti un po' hanno fatto bene che sono morti». E gli fa eco un ragazzotto accovacciato su un muretto: «Finita la mafia, non c' è più lavoro». Non avrà più di 14 anni. Come l' amico che s' annoia con lui: «Bella la mafia, piccioli facili». E un altro: «Una rapina feci, ma senza armi». E poi: «Lavoro non ne ho e non ne voglio. Che fare? Campare a spese dello Stato». E' dura per Piero Grasso, il procuratore, e per Maria Falcone, accerchiati a Lettere dalla folla di studenti indignati, l' altra faccia di Palermo. Dopo tanti anni di piombo, di mafia e di catene umane, di processi e promesse, la metastasi si ripropone. Anche nello sconforto di Salvatore, 5 anni, accanto al fratellino di due anni: «Gli sbirri hanno arrestato nostro padre». E quando si riaccendono le luci un sorriso amaro ce l' ha pure il ragazzino gellato che sullo schermo sfumazza e minaccia Zingaretti-Puglisi, chiamato «Mario bum-bum», intristito perché le riprese sono già un ricordo: «Ho provato a lavorare in un panificio. Trenta euro a settimana, dicevano. Ma non pagavano. E non ci vado più».

(Sabrina Taddei)

Fonte: Il corriere della Sera, 22 gennaio 2005

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