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Il volto dell'innocenza.

di Carla Weber / scritto il 24-07-2006

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Della scena brutale, caricamento e colpo taurino al petto dell’avversario, da parte di Zinedine Zidane contro Marco Materazzi, mi è rimasta l’espressione d’innocenza sul volto del colpito e la negazione ripetuta della propria implicazione. Di contro siamo stati esposti per giorni alla ripetizione mediatica di quel gesto violento, colpo sordo, primitivo, quale sequenza d’azione rallentata e separata. Privato del senso contingente, diviene gesto di follia e riproposto come frammento in confronti tecnici, dibattiti moralizzatori, di negazione o consenso, giochi di simulazione, animazioni divertenti in internet. Si assiste ad una saturazione di discorsi che si sovrappongono, si contraddicono, si contrappongono per sostenere tesi orientate a giustificare di volta in volta l’antagonismo del gioco sportivo; le ideologie nazionalistiche, culturali, religiose; gli interessi economici e politici. Come venirne a capo, quale ordine di discorso può renderci più responsabili della nostra umanità, fatta di vulnerabilità e forza, di violenza legittimata e no? La rilevanza del caso Zinedine Zidane e Marco Materazzi si è estesa oltre il mondo del calcio, la correttezza o meno di un gioco e le sue regole, anche perché il livello è quello di un campionato mondiale e richiama le identità nazionali, il valore dei campioni. Lo sport, come la musica, la danza, il cinema e le arti in generale, veicolano e sviluppano pensabilità collettive e soggettive attraverso canali di comunicazione affettivi, emotivi, empatici, dinamici e vitalizzanti. Il contatto, la sintonia è tra corpi e l’agire è con altri, le individualità si riconoscono nelle appartenenze. L’energia vitale è aggressività orientata verso la bellezza di oggetti d’amore condivisi collettivamente. Queste esperienze umane, dunque, sono oggi molto rilevanti per contenere e far evolvere l’aggressività umana in forme creative e non distruttive, per educarci al conflitto e non alla guerra. Sappiamo però che i gruppi e le collettività sono meno capaci di contenere la paura, la perdita, la mancanza, poiché i corpi che provano tali emozioni sono quelli dei singoli soggetti, esposti alle pressioni omologanti del gruppo di appartenenza e al rischio dell’esplosione regressiva in una relazione antagonistica.
Il campionato mondiale di calcio ci ha permesso di vedere una forma organizzata di competizione tra gruppi umani. Ha portato in campo i pregi e i difetti della regolazione dell’aggressività necessaria a condurre un confronto equo tra contendenti. Ha mostrato la fitta rete di relazioni e interessi di un apparato gigantesco, solo in parte visibile e codificato. Accanto al valore dei giocatori, alla bellezza del gioco, anche tanti compromessi, scorrettezze, speculazioni e volgarità. Un apparato sociale, quello del calcio che mima le regole e i linguaggi della società attuale, un microcosmo dello sport che è specchio di un macrocosmo della convivenza civile. Da questo triste episodio di violenza tra Zinedine Zidane e Marco Materazzi si evince che nello sport, nella competizione non si è responsabili di quello che si dice. La parola non conta. Il codice d’onore riguarda l’azione, e anche questa solo se è visibile e documentata. Il problema più importante riguarda il controllo esterno, la registrazione delle azioni in modo da renderle effettive o contestabili. Lo scopo è avere gli argomenti necessari a definire chi ha torto e chi ha ragione. Nel caso specifico il cambio di codice definisce il torto. All’offesa con le parole Zidane reagisce abbattendo fisicamente l’avversario. Nel nostro sistema educativo si apprende fin da bambini a rispondere con le parole alle parole per non finire dalla parte del torto. Si impara anche che viene punito chi è più esposto, chi si trova in mezzo o si è reso più visibile. I ragazzini a scuola lo sanno molto bene e i provocatori ci giocano, facendo esporre i più fragili. Agli educatori attenti però non sfuggono certi segnali di incoerenza, certi sintomi di relazioni di dominio e influenza perniciosa.
La questione su cui riflettere riguarda la vulnerabilità. La violenza ha a che fare con l’abuso della vulnerabilità dell’altro. La ricerca della vulnerabilità dell’altro passa attraverso la capacità empatica del soggetto umano. L’immaginarci cosa può far male, il conoscerlo e il sentirlo determina l’intenzionalità di una violenza. La vulnerabilità nell’esperienza dei soggetti, nella loro storia e cultura si colloca secondo livelli di tollerabilità diversi per come si sono costituite le relazioni con il proprio corpo, con i propri affetti e valori. Le regole sociali nel tempo hanno elaborato vincoli a tutela delle vulnerabilità soggettive e collettive procedendo al riconoscimento di uno standard codificabile di rispetto reciproco, a tutela delle libertà, dell’autodeterminazione e della difesa dei diritti dei singoli, almeno in tutte quelle comunità che riconoscono forme democratiche di distribuzione del potere. Roberto Toscano in La violenza, le regole, Einaudi 2006, propone oggi di ripensarle: “In principio fu la violenza, in opposizione al dialogo tra gli uomini. Di qui la spinta a creare regole e istituzioni capaci di ridurre l’insostenibile insicurezza di tale minaccia. In questo inizio di XXI secolo, è ancora necessario pensare gli strumenti che la prevengono, la limitino, la contengano”. La scienza dei conflitti documenta l’efficacia di metodi di comunicazione e azione che sviluppino conoscenza delle relazioni in gioco e partano dal farsi carico delle reazioni dell’altro, in quanto soltanto mettendosi dentro quella relazione se ne comprende l’esito agito. Il gioco del calcio ha mostrato di rifiutare questo e ci ha fatto assistere al contrapporsi dei fautori del farsi giustizia, se l’onore dell’essere uomo viene offeso, e degli innocentisti sostenitori della provocazione verbale, quale prassi normalmente diffusa del controllo dell’avversario. Se il calcio è spettacolo che genera miti attraverso il valore dei campioni e del gioco di squadra, non credo che possiamo essere orgogliosi di questa vittoria. Credo che abbiamo perso tutti e gli eventi successivi, della giustizia ordinaria e sportiva ne narrano l’epilogo. Non è solo Marco Materazzi a non sentirsi responsabile delle proprie parole, non è solo prassi dello sport, è prassi consolidata della politica, della convivenza sociale. Questo episodio, dunque, può essere assunto come sintomo di volgarità e pochezza, poiché rinuncia al valore di un’umanità fondata sul linguaggio. E la parola è azione, ci colloca nel mondo, ci permette di riconoscere e condividere con gli altri il senso del dire e del fare.
Il messaggio dello sport, della bellezza, della creatività del gioco è stato tradito da un’azione che lo invalida. Marco Materazzi con le sue provocazioni, sa cogliere nel segno e riesce a portare Zinedine Zidane fuori di sé, a fargli perdere la sua luce. L’unicità creativa di un campione, immortalato qualche giorno prima con immagini e movenze di un danzatore, mostra se stesso nella posizione ottusa di un caprone. Tutto quello che avverrà dopo non potrà più cancellare ciò che è avvenuto. Ciascuno dei due dovrà portarlo con sé nella propria memoria. La vittoria di una squadra può davvero valere qualunque prezzo? E se fosse divenuto un gesto irreparabile? Se l’avversario può anche non essere rispettato, se la fragilità diviene luogo riconoscibile della maggiore offesa, allora dobbiamo constatare che l’agone sportivo contempla il fango, la degradazione, lo squallore della guerra. A queste condizioni viene da chiedersi con quanta ipocrisia si continui a parlare del valore educativo di questo sport.

(Carla Weber)