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Essere in disaccordo impone il conflitto.

Intervista a Ugo Morelli. Il Corriere del Trentino, 7 dicembre 2004 / scritto il 08-12-2004

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Essere in disaccordo impone il conflitto.
Elizabetta Curzel intervista Ugo Morelli. Il Corriere del Trentino, 7 dicembre 2004.

Si chiama "Taccuino dei giorni scomodi. Un anno in una terra di frontiera, Il Trentino Alto Adige" e il titolo è rivelatore. Antologia di un anno di editoriali apparsi sulle prime pagine del Corriere del Trentino e del Corriere dell'Alto Adige, il nuovo libro di Ugo Morelli dà voce a un intellettuale poco intimorito dal politically incorrect, che al consenso preferisce ragionamento e rigore scientifico. Con un pizzico di provocazione.

Scrivere un editoriale è, al tempo stesso, un privilegio e una responsabilità. E lei non esita quando si tratta di esprimere opinioni controcorrente.
"Il taglio critico di solito adottato nello sviluppo dei miei contributi scritti è dovuto a più motivi. Il primo consiste nel fatto che quando si interviene per esprimere un punto di vista su un fenomeno, ritengo che sia indispensabile - almeno per chi come me si occupa di ricerca - esercitare il dubbio. Stare a vedere che cosa ci offre il caso che stiamo affrontando è un atto etico. Ma un taglio così denso di responsabilità richiede una posizione orientata a mettere in discussione ciò che accade anche per una questione metodologica. Infine, c'è anche una posizione di ordine politico. Noi diventiamo umani, non lo siamo per nascita: e diventarlo significa non solo avere coscienza di quello che ci accade, ma rendersi conto del doppio livello con il quale siamo capaci di analizzare la realtà. Quando scopriamo che i fenomeni di cui siamo protagonisti sono storici, capiamo anche che in quanto tali non sono fissi, bensì modificabili. Questo vale anche per le istituzioni: dopo averle create, abbiamo la tendenza a naturalizzarle e a subirle come se fossero immutabili. Il ruolo dell'intellettuale è aiutare a riconoscere la storicità delle scelte, i limiti delle istituzioni e la loro modificabilità. Noi siamo quelli che elaborano l'incertezza. Vivere la realtà e parteciparvi con uno sguardo distaccato significa evitare, come dicono a Napoli, di legare l'asino dove vuole il padrone. Chi è il padrone? Non esiste il padrone. Esiste però chi detiene, in un certo momento, il potere, e democraticamente lo esercita. Il ruolo di chi aiuta a riflettere consiste nel sottoporre i fatti al filtro (a volte anche alle forche caudine) della critica. Ed essere in disaccordo non è un problema; impone piuttosto la responsabilità di elaborare il conflitto."

Il conflitto dovrebbe essere per definizione dialogico. Ma lei è stato criticato, a volte, non solo per il contenuto delle sue dichiarazioni, ma per il fatto stesso di averle volute fare.
"Quando il livello del consenso attorno a chi governa supera una certa soglia, cominciano i problemi. La democrazia è un'istituzione fragile, la cui stessa fragilità andrebbe tutelata; chi governa dovrebbe investire in instabilità, ovvero nella valorizzazione dei punti di vista diversi. Ma quando mi metto in una posizione sorda, di elevato consenso - quando considero il consenso una premessa invece che un effetto - allora nascono i problemi. Questo si traduce, nella realtà quotidiana, in una situazione in cui la dialettica è quasi inesistente. Nel momento in cui la minoranza si esprime con la stessa lingua della maggioranza abbiamo la morte della democrazia".

Lei si propone come osservatore della società: scrive di cultura, formazione, lavoro, democrazia. Applica ai suoi scritti gli stessi metodi della ricerca scientifica? E come elabora un testo?
"E' inevitabile adottare i codici propri della forma mentis che ognuno di noi si costruisce per la professione che fa, e il mio e un lavoro molto coinvolgente. L'atto di scrivere un editoriale significa muoversi su un crinale molto delicato. C'è il limite della lunghezza del testo, tremila battute per dire tutto. E c'è l'adozione di un linguaggio non naturale per chi come me è abituato a scrivere per gli addetti ai lavori - cosa che non significa abbassarsi a un linguaggio semplicistico, bensì innalzarsi alla capacità di farsi capire. Il tutto deve essere fatto usando concetti non banali. Per quanto riguarda i temi, io nella mia storia di ricerca mi sono occupato di cultura, apprendimento umano e lavoro organizzato. Tendo sempre a intervenire su queste cose, a fare sì che ci sia un fondamento disciplinare e conoscitivo rispetto ai temi: non mi piace esprimere opinioni su tutto. Preferisco intervenire purchè ci sia una connessione tra le mie aree di ricerca e un tema che si presenta come urgente."

Come sceglie gli argomenti su cui scrivere?
"Sono i temi che chiamano noi, non il contrario. Penso al caso dei totem sparsi per Trento, che invitano alle buone azioni con un approccio moralistico (e francamente solleticante il neofondamentalismo, cosa di cui oggi non abbiamo affatto bisogno) , e che riconducono alla mia situazione soggettiva il fatto di essere felice stamattina. Questo è un esempio che stimola in me un certo sarcasmo. Altre cose mi scatenano una fortissima preoccupazione."

Ha parlato di democrazia e di dialogo. Ma democrazia significa dare voce a tutti?
"Direi di no, anzi. Una delle problematiche tra chi governa e chi è governato è che i primi esprimono non un eccesso, ma una carenza di autorità. Nel senso che l'auctoritas, la capacità di emettere segnali riconoscibili, è carente. Qui vengono ascoltati tutti fino a genericizzare le scelte per problemi di consenso. Se avessero scritto al cinema "si prega di fumare di meno", saremmo immersi ancora oggi in una coltre di nebbia fumosa. Invece si è scritto "vietato fumare". Questo va fatto in molti altri settori.

(Sabrina Taddei)