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Scrivere nonostante

di Antonio Castagna / scritto il 16-11-2008

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È dal 9 gennaio 2008 che non scrivo più un conflict now. Eppure non mi è mancato il tempo, non più del solito. Ho degli impegni, ma scrivere un cn mi diverte e mi rilassa. Mi permette di riflettere su ciò che accade quotidianamente, che osservo direttamente oppure attraverso i giornali o il web, i film. Non ho forse riflettuto questi nove mesi?
L'aspettativa con cui abbiamo immaginato i conflict now è di proporre un punto di vista sui fatti del giorno che non li banalizzasse. L'assunto da cui partiamo è che il racconto dei conflitti che ci viene normalmente proposto li confina in una dimensione semplificata riducendolo a una sola dimensione: è un conflitto di interesse, oppure un conflitto interno, una questione di lavoro, ecc. Ognuno di noi, in realtà, fa fatica ad assumere un punto di vista complesso e metodologicamente strutturato su un fatto. Polemos è nato per contribuire a costruire una scienza dei conflitti e la rubrica conflict now è nata per sperimentare metodo e punti di vista su questioni di stretta attualità.
Da nove mesi mi dibatto dentro un conflitto che non ho ancora ben elaborato, ma che forse comincia a prendere una forma. Pare che il mondo intorno a me si strutturi in conflitti già giocati, in trappole, dilemmi, doppi vincoli. Apparentemente giochi una parte in un conflitto, in realtà stai solo contribuendo ad accecarti. Ad esempio, la questione rifiuti a Napoli (l'abbiamo già dimenticata?) ci ha proposto una trappola del tipo vogliamo l'immondizia per le strade o l'inceneritore?
Non si è quasi parlato di riciclaggio, di trattamenti alternativi dell'immondizia raccolta, di riduzione dei rifiuti, di coinvolgimento della popolazione. Si è parlato di camorra ogni volta che qualcuno si è opposto alle scelte dei governi, ma non si è spiegato cosa la camorra fa e ha fatto, quali sono i suoi interessi ecc. Era come se sul campo ci fosse un problema (definito dai governi e dai media, che non mediano niente ma si limitano a fare da cassa di risonanza) e qualcuno che si proponeva di risolvere il problema, facile no? Qualche giorno fa poi, leggendo l'ultimo libro di Guido Viale, Azzerare i rifiuti, Bollati Boringhieri, scopro che in Campania esistono sette impianti funzionanti per il trattamento biologico meccanico che potrebbero ridurre la materia da bruciare a tal punto che basterebbe un inceneritore (invece dei quattro in progetto) grande la metà di quello di Acerra. E scopro che sono molti i cittadini che in questa crisi si sono autorganizzati per fare la raccolta differenziata, hanno acquisito competenze che nemmeno Viale aveva prima di incontrarli, e scopro pure che l'Assessore all'Ambiente Walter Ganapini, ex Presidente di Greenpeace Italia, nominato a febbraio, sta lavorando insieme alle maestranze (che hanno lavorato gratuitamente) per riattivare proprio quegli impianti di cui nessuno parla.
Ora sì che il conflitto è visibile, che la linea di demarcazione è evidente. Non perché abbiano ragione gli uni e torto gli altri, ma perché il paesaggio sembra più vario, ci sono più voci e la questione non è più dicotomica, del tipo o con lo Stato o con la camorra. Quello dell'immondizia è un mondo straordinario tra l'altro, che ci viene poco raccontato, ma che apre lo spazio a questioni di carattere epocale. Ad esempio lavorando a una ricerca sul tema della raccolta differenziata ci siamo resi conto che probabilmente i buoni risultati raggiunti in provincia di Trento sulla raccolta, l'enfasi comunicativa con cui vengono presentati, paradossalmente convincono i cittadini a consumare imballaggi senza preoccuparsi, tanto poi differenziamo bene. Produrre molti imballaggi però implica sia costi di produzione e inquinamento a monte, che costi di smaltimento e riciclaggio a valle. Ecco che si apre ancora un'altra questione e che lo spazio di pensiero diventa più ampio.

Il razzismo. Non siamo razzisti, dicono i politici, i picchiatori, gli assassini, i poliziotti, in qualche modo coinvolti da episodi in cui uno straniero, preferibilmente di colore, oppure un rumeno, divengono bersaglio di invettive, insulti, sprangate o colpi di pistola e mitra. Come si fa a discutere il sentimento soggettivo di qualcuno che sente di non essere razzista? E neanche si può semplicemente dire che le politiche e le parole della destra, di per sé, producono azioni razziste da parte dei cittadini. In questi mesi pochi ne parlano e quando lo fanno spesso è per accusare genericamente la destra. Nessuno fa un'analisi del discorso sull'altro che procede dall'affermare che il migrante è innanzitutto un extracomunitario (anche quando è rumeno e quindi comunitario), che extra in questo caso non è sinonimo di straordinario, ma di uno che viene da fuori, da un altro mondo, e quindi è qui come intruso. Che gli intrusi sono tutti uguali e che sono gli intrusi a portare le cose brutte nelle nostre case. Ma se è così, se noi siamo nelle nostre case e stiamo bene, e poi arrivano da fuori e ci portano cose brutte, perché il singolo cittadino non dovrebbe organizzarsi da sé per buttare fuori l'intruso? A questo appiattimento della figura dell'altro su quella dell'intruso che viene da fuori, ha contribuito anche la sinistra. Paradossalmente ha contribuito anche l'idea che si potesse fare intercultura, perché presuppone che pre-esistano delle essenze, chiamate culture, formate da un insieme di valori, codici, memorie, che possono incontrarsi e arricchirsi reciprocamente. Ma se ognuno di noi una cultura ce l'ha già, ed è un tutto, un cosmo pieno, dove sarebbe lo spazio per l'incontro? Non sarebbe meglio a questo punto parlare di giustapposizione? L'incontro con l'altro però in questa caricatura che ne sto facendo diventerebbe una sorta di puzzle da montare, un gigantesto playmobil silenzioso e privo di conflitti. Un'idealizzazione impossibile e perciò continuamente esposta alle smentite dei fatti e incapace di sostenere una adeguata rielaborazione di ansie e paure. Quando il puzzle non riesce allora è meglio organizzarsi per eliminare il pezzo più strano, che meno corrisponde all'insieme che ci siamo figurati. Se poi viene più facile riconoscerlo perché è di pelle scura, o perché vive nei campi di roulotte, ecco che lo stigma e la violenza si applicano a tutta una categoria, e questo si chiama razzismo (dopo averlo definito nel senso classico di discriminazione basata sulla razza, il dizionario De Mauro aggiunge che per estensione si intende “ogni atteggiamento discriminatorio variamente motivato nei confronti di persone diverse per categoria, estrazione sociale, sesso, opinioni religiose o provenienza geografica”).
Quindi, se mentre prendi a sprangate un ragazzo nero che ha rubato dei biscotti lo chiami sporco negro, è perché negro è diventato un insulto applicato a tutti quelli che hanno la pelle più scura della nostra (notare “nostra”) e questo si chiama razzismo. Non è come dire sporco Abdul, o sporco Antonio, quello è un insulto suscitato da un individuo che ti ha fatto arrabbiare, ma se dico sporco negro o terrone di merda, stiamo parlando di caratteristiche negative attribuite a un intero gruppo sociale. Non si capisce perché il fatto che io rubi dei biscotti debba suscitare rabbia verso tutti coloro che sono nati da Roma in giù. Ma anche quando diciamo una cosa del tipo: “io sono tollerante, ma certo che sono diventati tanti”. Tanti? Rispetto a cosa sono tanti? E perché applichi una distinzione in cui tanti è riferito a una categoria di persone le cui caratteristiche individuali e culturali scompaiono di fronte a una generalizzazione tanto ampia? D'altra parte, la responsabilità dei politici che ora si indignano (Fini e Alemanno per esempio, ma anche quelli di opposizione) e dei giornali che esecrano è di avere costruito proprio quel discorso in cui lo straniero migrante diventa extracomunitario che invade e quindi, di cosa si stupiscono? A chi rivolgono la loro indignazione? Il vero problema, dal punto di vista di chi riflette sul conflitto, è che non si possono inseguire le continue esternazioni e giustificazioni se non si vuole finire con la testa piena di sciocchezze vuote. Dire una cosa e il suo contrario, come fanno spesso i giornali e i telegiornali che contemporaneamente parlano dell'insicurezza della gente, dell'invasione degli extracomunitari, degli sbarchi e della necessità di integrare gli stranieri (quelli onesti, per carità), affermare e ritrattare (specialità del Presidente del consiglio) serve a saturare gli spazi di pensabilità. Segmenta la realtà in sfere di discorso che contemporaneamente impediscono l'opposizione (“io voglio integrare gli immigrati, anch'io risponde l'altro, quelli onesti però”). In questo modo acquistano rilevanza categorie del tutto prive di significato e che non consentono la distinzione. Dovremmo chiederci piuttosto cosa significa integrazione, parola che su un continuum può essere sinonimo di assimilazione e negazione, ma anche di composizione e rielaborazione di tratti molteplici caratterizzanti l'incontro di mondi diversi.
Ho l'impressione che manchi nella sfera pubblica, almeno quella italiana, qualche discorso che riapra i giochi. E sembra assente una presa di posizione collettiva come quella di Colonia, dove la popolazione ha impedito il raduno di razzisti proveniente da tutta Europa, tra cui Borghezio.
Quella presa di posizione mi ha rincuorato, perché va bene la complessità, ma non è che puoi legittimare qualsiasi discorso. Non è vero che Borghezio può dire la sua come tutti, che è un'opinione tra le altre, perché utilizzare categorie così ampie, come extracomunitario, o negro, per appiccicare etichette che appiattiscono le personalità individuali sotto un'unica connotazione negativa significa negare la dignità dell'individuo e siccome questa è una premessa che tutti a parole condividiamo allora un'affermazione che neghi la sua premessa non è legittima.

Infine, un ultimo caso, che ha finito di sfinirmi. Nel decreto legge su Alitalia spunta un emendamento che salverebbe dal carcere gli amministratori di società insolventi ma non fallite, come Alitalia, ma anche Parmalat e Cirio e chissà quante altre. “Report” ne dà notizia, “La Repubblica” la rilancia, il ministro Tremonti (che aveva firmato il decreto) minaccia di dimettersi se
quell'emendamento non scompare. Il ministro Tremonti ha la responsabilità del decreto, che ha firmato. Se nel decreto è contenuto un emendamento di cui non si è accorto, come sostiene, vuol dire che ha firmato senza conoscere, e non è un bel modo di esercitare una responsabilità così importante, dovrebbe dimettersi, ma non perché è cattivo, semplicemente perché non è capace di esercitare adeguatamente il ruolo. Capita nella vita. Che sia in buona o cattiva fede non ha nessuna importanza rispetto all'esercizio della responsabilità. Eppoi, dopo che Tremonti si è dimesso, il governo dovrebbe costringere alle dimissioni anche chi in modo subdolo voleva salvare Tanzi e Cragnotti. Si chiama Antonio Paravia e in una intervista a “La Repubblica” afferma che non salverebbe mai Cragnotti, che è laziale. Ma è la domanda che è sbagliata. Non ha nessuna importanza che volesse salvare l'uno o l'altro. Paravia, Tremonti e chiunque ricopre incarichi di responsabilità risponde degli effetti, non delle intenzioni. Nelle intenzioni siamo tutti vicini alla santità e vogliamo il bene di tutti. Per fare il bene siamo disposti a uccidere e per garantire la pace si fanno le guerre. Quindi mi sento di affermare che non è un buon criterio.
Mi fermo, anche se sono solo alcuni episodi e in mente ne ho decine. Decine di conflitti inattivi, dormienti, perché sembra che il campo dei discorsi possibili sia chiuso. E anche occuparsi di Tremonti, o del razzismo in buona fede e di spazzatura da sotterrare oppure da bruciare blocca l'immaginazione. Ma il conflitto senza immaginazione è senza vie d'uscita, come un gatto che si mangia la coda.
Il conflitto ha bisogno di valicare i confini e la situazione intorno a me sembra invece rinchiudersi in confini sempre più angusti.
Ma allora di cosa possiamo parlare e scrivere in un conflict now?
Domani forse potremmo parlare di scuola. Vedere studenti e professori in piazza a fare lezione è la cosa più conflittuale che si potesse immaginare. La scuola e l'università che diventano luogo di dibattito e confronto, mentre il parlamento diventa un ossimoro vivente, luogo del silenzio.

Antonio Castagna