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Eventi da rimuovere per definire una diversa appartenenza di specie

di Carla Weber / scritto il 05-03-2007

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Ci sono eventi di cronaca che richiedono un’immediata dissociazione per potersi riconosce appartenenti alla specie umana. In quei momenti veniamo messi a confronto improvvisamente con comportamenti delittuosi feroci e sconvolgenti che non sembrano più tenere conto dell’idea che abbiamo collettivamente dell’essere umani, donne e uomini , madri e padri, figlie, figli, fratelli e sorelle. Spesso i ceti sociali e le culture di appartenenza delle persone incriminate non sembrano così determinanti a farci comprendere l’efferato fatto, piuttosto sembrano essere usati quali stereotipi di copertura di una spiegazione possibile. La stessa sorpresa, infatti, lo stesso sconcerto e rifiuto vengono manifestati anche dalle comunità familiari e sociali che ne sono direttamente coinvolte. Solitamente il fatto traumatico si consuma inaspettatamente, come se qualcosa si fosse staccato in modo dirompente da una normalità quotidiana. Per questo forse sembra naturale attribuire tutto questo a forme di pazzia o comunque di disturbo psichico di particolari soggetti.
Il ripetersi di eventi simili, in luoghi e contesti vicini a noi, incomincia, negli ultimi tempi a dare origine a campagne di moralizzazione e di richiamo ad una maggiore presenza delle istituzioni fondanti la nostra società. Attraverso i media si ascoltano e si leggono interpretazioni che cercano senso e significato dei fatti in una lettura più ampia che chiama in gioco l’educazione, la formazione, la religione, la politica, i saperi consolidati e gli immaginari collettivi. Di fronte a fenomeni che mostrano una deriva delle relazioni primarie e la perdita di autorità delle istituzioni, sembra di non poter far nulla singolarmente e di essere anzi sempre più esposti ad azioni incontrollabili, invasive e distruttive, dei singoli e anche da parte di gruppi. Il sentimento paralizzante riguarda il fatto che non si sa come reagire ad azioni senza linguaggio, primitive, pericolosamente distruttive e violente.
Attoniti e spaventati, ciascuno di noi sperimenta la possibilità di perdere in un attimo quella sicurezza e libertà sociale che faticosamente, anche attraverso gli orrori della storia, ci sembrava conquistata garantendoci di non avere paura l’uno dell’altro. La paura di soccombere all’orda, alla ferocia e all’indifferenza dell’altro tanto vicino a noi, anticipa in noi visioni catastrofiche e richiama quelle tragiche esperienze storiche non del tutto elaborate.
Sappiamo che i sentimenti di paura e di colpa limitano la conoscenza del fenomeno e l’elaborazione di una condivisione sociale intorno ai significati di quello che sta succedendo, e ancor più il riconoscimento delle azioni legittime e necessarie. Nelle conversazioni collettive private e pubbliche si avverte, infatti, una ripetitività e un’inefficacia dell’argomentare come se ogni volta sfuggisse l’oggetto stesso dello scambio. La perdita dell’oggetto può essere un sintomo rilevante in grado di segnalarci quanto noi stessi siamo dentro l’oggetto del discorso, cioè immersi nella crisi delle relazioni sociali, tanto da impedirci di afferrarlo.
Afferrare l’oggetto vuol dire tollerare la depressione che deriva dall’accettare di farvi parte per potersi dedicare alla ricerca della verità, individuando le variabili di un fenomeno che abbiamo socialmente concorso a creare. Se vogliamo trasformare una realtà in cui non ci identifichiamo, illusorio è pensare che basti espellere o rimuovere il male da noi e dal nostro piccolo giardino per collocarlo negli altri diversi da noi e in un altro mondo, poiché oggi abbiamo sperimentato quanto siamo tutti parte di un unico mondo di cui possiamo essere allo stesso tempo ospiti e ostaggi.
Sarà necessario, proprio per questo, che non si perda il filo che ci lega insieme nella nostra matrice umana, allo stesso tempo così fragile e potente, in senso creativo e distruttivo. La via della nostra possibile evoluzione emancipativa la possiamo scoprire aumentando la consapevolezza della complessità del legame e il riconoscimento dell’origine che ci accomuna nel tempo profondo della filogenesi della specie umana e nel tempo presente dell’ontogenesi del soggetto umano.
Forse è giunto il tempo di riconoscere che il nostro processo di civilizzazione ha bisogno di andare di pari passo con un processo di umanizzazione adeguato, che richiederebbe di tenere insieme l’adattamento alla convivenza e il bisogno di distinzione in modo mai definitivo, anzi quale elemento creativo dell’esistenza stessa della specie umana.
Il presente sembra mostraci oggi una particolare difficoltà delle persone a trovare vie di esistenza creative. “Derubati della possibilità di appropriarsi del proprio destino le persone si fanno la guerra” ho sentito dire a Stefano Agosti (regista, scrittore) in una recente intervista. La distruttività e la forza della rabbia omicida che viene espressa in tragici episodi di vita quotidiana diviene un segnale forte, disperato, di rottura dell’essere identità anonime, in una passività priva di uno spazio potenziale di creazione di un mondo in cui vivere e sentirsi partecipi. Una grande quantità di persone sembra non accedere alla propria emancipazione, non partecipare alla creazione di una cultura che moduli nelle relazioni sociali le condizioni per dare corso ai sentimenti e ai desideri, al bisogno di produrre simboli e oggetti che portino il segno della propria presenza attiva.
La passivizzazione, l’impoverimento dei linguaggi, la banalizzazione delle culture, il dominio di oggetti non pensati da noi se per certi versi sembra risparmiare la fatica di pensare ed evitare di responsabilizzarsi rispetto alla propria vita, nel momento in cui però si constatano le basse opportunità di scelta e la non realizzazione possibile, forze rabbiose e violente trovano vie di coesione massiva e oggetti e persone da colpire.

(Carla Weber)