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Il premio a Kagame. Riconoscere il conflitto.

di Fabio Pipinato / scritto il 16-10-2007

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Ho letto anch’io con stupore in diversi quotidiani riguardo il premio “Abolizionista 2007” proposto dall’associazione “Nessuno Tocchi Caino” che il governo italiano, nella persona di Romano Prodi, ha recentemente dato al Presidente del Rwanda Paul Kagame. E’ conseguita una prevedibile alzata di scudi di molte organizzazioni non governative e riviste missionarie. In primis "Nigrizia".

Sono volate parole grosse come “negazionista” o “complice” da parte della curatrice del Rapporto 2007 di “Nessuno Tocchi Caino” nonché “tesoriera” del partito Radicale verso i Comboniani che, attraverso il loro sito internet, rispondono puntualmente accusando l’ “assenza” e la “non conoscenza” dei fatti da parte della curatrice del rapporto. Ne è nato un conflitto mediatico sull’onda lunga del conflitto storico che vede contrapposte sia le due etnie che abitano il piccolo paese africano che le potenze francofone ed anglofone che rispettivamente le sostengono in un’infinita “guerra fredda”.

La divisione etnica sembrava esistere ancor prima il colonialismo belga che l’accentuò colpevolmente e vide due tragici scontri in due diversi e recenti momenti storici: nel 1994 con il genocidio di circa un milione di rwandesi di etnia tutsi ed hutu moderati e negli immediati anni seguenti con le diverse invasioni nella Repubblica Democratica del Congo da parte delle attuali forze armate rwandesi capeggiate dallo stesso Kagame. La “guerra mondiale africana” del Congo costò la vita a milioni di civili.

La questione non è affatto semplice. Quando si toccano i Grandi Laghi scoppiano le emozioni del conflitto tra coloro che sostengono le tesi degli uni e coloro che difendono le antitesi degli altri. Trattasi, al pari degli altri genocidi del ‘900: armeni, ebrei, cambogiani, bosniaci di Srebrenica di questioni ancora scottanti e complicate che hanno diviso e dividono il mondo intero. Nessuno può negare, a parte qualche squilibrato, l’Olocausto degli ebrei nei campi di sterminio ma parimenti e consequenzialmente non sono ignorabili le violazioni dei diritti del popolo palestinese da parte di coloro che sono storicamente ed ancor oggi “minacciati” perché a loro volta “non riconosciuti”. La Turchia non riconosce il genocidio degli armeni mentre la Serbia non riconosce le responsabilità dei superlatitanti Mladic e Kardzic che vivono liberi e protetti nei Balcani.

La rielaborazione del conflitto avviene solo nel lunghissimo periodo. E' quasi impossibile e forse ingiusto richiedere il perdono a coloro che hanno recentemente perso i propri cari a colpi di machete o armi automatiche. Quest’ultime, guarda caso, provengono anche dai nostri civili paesi.
Per coloro che hanno profondamente sofferto, il secolo scorso coincide con l’altro ieri. Ma uno sforzo, da parte di coloro che abitano altrove, è necessario altrimenti non ne usciamo ed, anzi, rischiamo di procrastinare il conflitto all’infinito senza immaginare nuove e non violente evoluzioni.

Il difficile esercizio al quale dobbiamo sottoporci sta quindi nel riconoscere nell’efferato nemico tre piccolissime particolarità positive che potrebbero facilitare un futuro dialogo. Per esempio in Paul Kagame si potrebbe riconoscere di aver abolito l’attestazione di appartenenza etnica nella carta d’identità ruandese; formalmente non esistono più hutu e tutsi ma solo rwandesi. Oppure di aver portato una percentuale di donne in parlamento superiore alle maggiori democrazie europee ed infine abolito, per l’appunto, la pena di morte.

Parimenti nei Grandi Laghi, e quindi anche in Burundi, si potrebbe riconoscere all’etnia maggioritaria di aver recentemente e non facilmente scelto la difficile via “politica” anziché militare nonostante le umiliazioni di decenni di servitù e nonostante l’incapacità della Comunità Internazionale di leggere tutta la storia, dagli anni ’60 ad oggi, e non solo i fatti del ‘94; di aver riconosciuto nei tribunali popolari Gacaca parte delle proprie colpe del genocidio del ’94 e comunque avuto il coraggio di rientrare in Patria accettando condizioni di vita affatto facili.

L’esercizio potrebbe sembrare superficiale soprattutto a coloro che hanno vissuto la “banalità del male” ma è un timido tentativo proposto alle due importanti organizzazioni della società civile italiana: Nigrizia e “Nessuno tocchi Caino” di “abbassare i toni” cercando una via che ci porti oltre la dicotomia del conflito etnico.

Sono conscio che il premio a Paul Kagame è solo una foto di un lungo film. Il governo del Rwanda sa destreggiarsi abilmente con i media e non è nuovo a queste dichiarazioni che sicuramente catturano l’attenzione internazionale e quindi, conseguentemente, gli aiuti per costruire un Rwanda ad immagine e somiglianza dell’occidente. Anche la pellicola “Hotel Rwanda” racconta solo il primo tempo dei fatti accaduti omettendo il secondo tempo e quindi il successivo regolamento di conti di chi ha vinto la guerra ma ha anche formalmente bloccato il genocidio nell’incuria vergognosa della Comunità Internazionale che ha colpevolmente e paurosamente indebolito l’ONU.

Ma se vogliamo realmente intravvedere un percorso di riconciliazione prima tra noi e poi tra le comunità rwandesi con le quali cooperiamo possiamo partire da questa foto e quindi da questa precisa volontà politica di abolire la pena di morte. Una volontà che potrebbe aiutare il governo italiano nella sua battaglia per la moratoria della pena di morte presso l’ONU aiutandoci tutti ad intravvedere un futuro non solo per questa regione ma per altri territori che ancor oggi rispondono legalmente all’odio con l’odio.

Fabio Pipinato
Direttore di Unimondo. Presente in Rwanda durante il genocidio del 1994. Scritto apparso sul giornale "L’Adige" il 4 settembre 2007