base

home/conflict now

Cerca:

Aiuto umanitario, ultima beffa per i nuovi dannati della terra

Il sociologo Zygmunt Bauman denuncia la condizione dei profughi di guerra, trattati come "rifiuti viventi". Il Corriere della sera 19 gennaio 2005 / scritto il 23-01-2005

torna indietro

Così l' Occidente «altruista» sancisce l' esclusione definitiva dei rifugiati. i diritti dell' uomo non sono riconosciuti a chi è senza patria. il declino degli Stati favorisce il risorgere di scontri tribali
ANTICIPAZIONE Il sociologo Bauman denuncia la condizione dei profughi di guerra, trattati come «rifiuti viventi»
Bauman Zygmunt



A proposito della Dichiarazione dei diritti dell' uomo e del cittadino, uno dei testi fondativi della società moderna, Giorgio Agamben ha osservato (con il vantaggio di un senno di poi lungo due secoli) che in essa «non è chiaro se i due termini (uomo e cittadino) nominino due realtà distinte» oppure se il primo termine debba ritenersi «già sempre contenuto nel secondo»; in altre parole, se il titolare dei diritti sia l' uomo che è (o nella misura in cui è) anche un cittadino. Questa mancanza di chiarezza, con tutte le sue sinistre conseguenze, era già stata notata da Hannah Arendt nel periodo immediatamente seguente alla Seconda guerra mondiale, in un mondo che si riempiva improvvisamente di «sfollati». La Arendt rievocava la vecchia e davvero profetica premonizione di Edmund Burke, secondo cui l' astratta nudità del «non essere altro che umana» costituiva il più grave pericolo per l' umanità. I «diritti umani», rilevava Burke, erano un' astrazione, e gli esseri umani non potevano sperare di riceverne una gran protezione, a meno che l' astrazione non fosse riempita con la polpa dei diritti di un inglese o di un francese. «Il mondo non ha visto nulla di sacro nell' astratta nudità della condizione di umano»: così la Arendt ha riassunto la storia degli anni che sono seguiti alle osservazioni di Burke. «I Diritti dell' Uomo, presunti inalienabili, si sono dimostrati inapplicabili ( ) ogni qual volta comparivano persone che non erano più cittadine di nessuno Stato sovrano». Nei fatti, uomini e donne dotati di «diritti umani» ma privi di qualsiasi altro requisito (cioè spogliati di altri diritti, necessari a garantire e difendere quelli «umani», ma derivanti da istituzioni) risultavano introvabili e, a tutti gli effetti, inimmaginabili. Una potenza sociale, fin troppo sociale, era evidentemente necessaria per avallare l' umanità degli umani. E in tutta l' epoca moderna, questa potenza è consistita nella capacità di tracciare un confine tra umano e inumano che, nei tempi moderni, si camuffa da confine tra cittadini e stranieri. In un mondo suddiviso in possedimenti territoriali di Stati sovrani, chi è senza patria è senza diritti. Questi non patisce perché non è uguale davanti alla legge, ma perché non esiste legge che gli si applichi, la cui protezione egli (o ella) possa invocare, o alla quale possa fare riferimento nel protestare contro un trattamento iniquo che abbia subito. La maggior parte delle azioni belliche che si compiono oggi, e le più spietate e sanguinose tra esse, sono condotte da entità non statuali, che non sono soggette a leggi statali né a convenzioni internazionali. Sono al contempo esiti e (incisive) concause della continua erosione della sovranità statale. Gli antagonismi fra tribù irrompono sulla scena grazie all' indebolimento delle forze statali (o nel caso dei «nuovi Stati», che non hanno mai avuto il tempo di consolidarsi); una volta scatenati, essi rendono inapplicabili e in pratica nulle e inefficaci le leggi emanate dagli Stati, sia quelli affermati, sia quelli ai loro primi passi. La popolazione nel suo complesso si trova in una dimensione priva di leggi; la parte di popolazione che decide di abbandonare il campo di battaglia e riesce a scappare cade in un altro tipo di «alegalità», quella delle terre di confine globali. Per di più, una volta fuoriuscite dai confini del loro paese natale, le persone si trovano prive dell' appoggio di un' autorità statale riconosciuta, che potrebbe prenderle sotto la propria protezione, rivendicare i loro diritti e intercedere in loro nome presso potenze straniere. I profughi sono apolidi, ma in un senso nuovo: la loro apolidia è elevata a un livello completamente inedito dalla inesistenza dello Stato al quale potrebbero fare capo. Essi sono, come scrive Michel Agier nella sua più penetrante ricerca sui rifugiati nell' epoca della globalizzazione, hors du nomos: al di fuori del diritto; non del diritto di questo o quell' altro Paese, ma del diritto in quanto tale. Sono reietti e fuorilegge di tipo nuovo, i prodotti della globalizzazione e la personificazione più compiuta del suo spirito da terra di frontiera. Per citare ancora Agier, essi sono stati gettati in una condizione di «migrazione liminare», di cui non sanno né possono sapere se sia transitoria o permanente; anche se per un certo periodo si stabiliscono, il loro movimento non è mai concluso, poiché la meta (arrivo o ritorno) resta sempre vaga, e una destinazione che potrebbero definire finale resta sempre inaccessibile. Non riescono mai a sbarazzarsi della tormentosa sensazione che ogni stanziamento sia caduco, indefinito e provvisorio. La brutta situazione dei profughi palestinesi, molti dei quali non hanno mai vissuto fuori dei campi frettolosamente raffazzonati più di cinquant' anni fa, è stata documentata con dovizia di dettagli. Mano a mano che la globalizzazione impone il proprio tributo, tuttavia, intorno ai punti più caldi della conflagrazione sorgono come funghi nuovi campi (meno famosi e perlopiù trascurati o dimenticati). Per esempio, non vi sono indizi di chiusura imminente per i tre campi di Dabaab - la cui popolazione totale è pari a quella del resto della provincia keniota di Garissa, dove sono stati mappe del Kenya. Lo stesso vale per i campi di Ilfo (aperto nel mappe del Kenya. Lo stesso vale per i campi di Ilfo (aperto nel settembre 1991), Dagahaley (marzo 1992) o Hagadera (giugno 1992). Mentre si dirigono nei campi, i futuri «ricoverati» vengono spogliati di ogni singolo pezzo delle loro identità, tranne uno: quello di profughi senza Stato, senza un posto e senza mansioni. All' interno del recinto del campo, una massa anonima, priva dell' accesso alle elementari strutture da cui le identità sono prodotte e ai fili che costituiscono il tessuto di qualsivoglia identità. Diventare un «profugo», scrive Agier, significa perdere «i media su cui poggia l' esistenza sociale, ossia un insieme consueto di cose e persone che trasmettono significati: terra, casa, villaggio, città, genitori, proprietà, occupazioni e altri punti di riferimento quotidiani. Queste persone in fuga e in attesa non hanno nient' altro che la propria "nuda vita", il cui prolungamento dipende dall' assistenza umanitaria». Riguardo all' ultimo punto, le inquietudini abbondano. La figura di chi presta aiuto umanitario, retribuito o volontario, non è essa stessa un importante anello della catena dell' esclusione? Sono stati sollevati dubbi circa il ruolo degli enti di assistenza: non sarà che, facendo del proprio meglio per togliere le persone dal pericolo, essi - senza accorgersene - finiscono con l' assistere proprio gli autori della «pulizia etnica»? Agier considera l' ipotesi che l' operatore umanitario possa essere un «agente di esclusione a minor costo» e (ancor più importante) un espediente messo a punto per alleviare e dissipare l' ansia del resto del mondo: assolvere i colpevoli e mitigare gli scrupoli, oltre che sedare l' impressione di urgenza e il timore di imprevisti. Mettere i profughi nelle mani di «operatori umanitari» (e dimenticare le scorte armate che stanno sullo sfondo) sembra proprio il modo ideale per conciliare l' inconciliabile: soddisfare la travolgente richiesta di smaltire fastidiosi rifiuti umani pur appagando un' acuta aspirazione alla rettitudine morale. (...) I profughi sono rifiuti umani, senza alcuna funzione utile da svolgere nella terra dove giungono e (temporaneamente) soggiornano, e senza l' intenzione né la realistica possibilità di essere mai assimilati o integrati nel nuovo corpo sociale; dal luogo che occupano, la discarica, non vi è ritorno né sbocco ulteriore. Il principale criterio con cui è decisa l' ubicazione dei campi temporanei-permanenti è quello della distanza, che dev' essere abbastanza grande da impedire che le esalazioni venefiche della decomposizione sociale raggiungano luoghi abitati dalla popolazione indigena. Fuori dai campi, i profughi sono un ostacolo e un disturbo; dentro, essi cadono nell' oblio. Nel tenerceli, sbarrandogli ogni possibile uscita, nel rendere definitivo e irreversibile il loro isolamento, «la compassione di alcuni e l' odio degli altri» concorrono a determinare il medesimo effetto: presa di distanza e mantenimento a distanza. Non rimane null' altro che i muri, il filo spinato, i cancelli sorvegliati e le guardie armate. (...) Le prospettive di essere rimessi in circolazione come membri legittimi e riconosciuti della società umana sono, per i profughi, incerte e infinitamente remote (nel migliore dei casi). Sono stati presi tutti i provvedimenti per garantire che la loro esclusione sia permanente. Uomini e donne senza qualità sono stati depositati in territori senza nome, dove tutte le strade che riportano a luoghi investiti di un significato sono state bloccate per sempre.

(Sabrina Taddei)

Fonte: Il Corriere della Sera, 19 gennaio 2005, Pagina Cultura


http://www.corriere.it