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Lost generation?

di Ugo Morelli / scritto il 18-08-2015

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Vogliamo davvero fare di intere generazioni delle generazioni scomparse? Pare proprio di sì, stando sia ai numeri che crescono sulla disoccupazione giovanile, che all’indifferenza con cui non si fa quasi nulla per affrontare il problema dei cosiddetti Neet (Not in education, employment and training) e dei lavoratori precari. Tra l’altro si continua a parlare di disoccupazione giovanile e di precarietà lavorativa dei giovani, ma gli interessati hanno ormai età che spesso non sono più giovanili. Mentre i primi, i Neet non lavorano e non cercano lavoro, non sono in un percorso educativo né in uno formativo, i secondi, i lavoratori precari, sono ormai la norma dominante nei rapporti di lavoro. Paradossalmente, ma non tanto, si potrebbe arrivare a sostenere che se nella contemporaneità non si trova traccia del contrario della precarietà, se l’incertezza e le vite precarie sono una costante del nostro tempo, allora “il precariato non esiste”. Se tutto è precario, allora niente lo è; si tratta semplicemente di una nuova condizione che si propone come costitutiva per le forme di vita sociale. In particolare riguardo alla precarietà lavorativa, forse l’incantesimo in cui siamo immersi è l’idealizzazione del lavoro stabile, per tutta la vita, nello stesso posto, svolto secondo un principio etico che ha visto nel lavoro la principale, se non l’unica forma di autorealizzazione nella vita. Non si può esimersi dal considerare che quella stabilità dell’appartenenza lavorativa e comunitaria, spesso decantata oltre quelle che devono essere state le condizioni effettive, oggi non si ritrova neppure in nessuna delle nostre altre esperienze di vita. Se c’è un tratto che accomuna molte delle nostre esperienze e distingue il nostro tempo, quello è il nomadismo, non solo per i movimenti migratori “biblici” che interessano per motivi diversi quote sempre più ampie di popolazione, ma in particolare per il nomadismo dell’esperienza. Stiamo tornando nomadi e forse non abbiamo mai effettivamente smesso di esserlo. Certo, abbiamo fatto di tutto per imbrigliare la nostra erranza e costruirci certezze, ma l’incertezza si riafferma e travalica ogni limite che cerchiamo di imporle. Attendiamo che le politiche del lavoro smettano di essere assistenzialistiche e riparatorie, prima di tutto a livello locale, e che si faccia uno sforzo inedito per dialogare con le nuove forme di lavoro e le aspettative effettive delle giovani generazioni, per molti aspetti diverse e tali da non mettere il lavoro al centro dell’esperienza. Solo uscendo dall’ideologia su cui tutti sembrano concordare si ascolterà la nuova domanda portata dalle trasformazioni del lavoro. Del resto “La concordanza è il terreno di gioco delle menti ottuse”, ha scritto il docente della Hebrew University di Gerusalemme, Yuval Noah Harari.

http://www.ugomorelli.eu/hn/437.html