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"Noi coloni ci credevamo i migliori"

Un peccato di idealismo e arroganza. Di Stefano Pollini / scritto il 02-09-2005

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La scrittrice israeliana Bambi Sheleg, direttrice di una rivista per i coloni di Gaza analizza, con lucidità e forte autocritica, il punto di vista dei coloni, il cui comportamento ha contribuito all’inasprirsi della situazione conflittuale.
L’articolo, pubblicato sul corriere della sera il 18 agosto 2005, permette di riflettere su alcune questioni relative al conflitto.
Innanzitutto emerge come elemento costitutivo l’ambiguità, dove si annullano le classiche categorie di bene e male, di buoni e cattivi. I coloni non erano peggiori di altri, anzi forse erano i migliori e con tutte le più buone intenzioni. E questo non è bastato. Anzi, proprio questo ha costituito la fonte del problema: “Sì, molti di noi sono davvero i migliori dei suoi figli, ma siamo stati noi a tradirla per primi. Con innocenza. Per autentico idealismo. Anche, però, per arroganza. Siamo stati noi i primi a disimpegnarci”.
Se fossimo stati meno chiusi e più umili, se avessimo avuto il coraggio di volgere lo sguardo alle persone e smettere di predicare quanto fosse meraviglioso il nostro mondo, se i nostri rabbini si fossero occupati della situazione effettiva della società, oggi forse non saremmo di fronte alla tragedia consumata sulla porta di casa nostra.
Per quanto sia spiacevole ammetterlo, ci siamo innamorati di noi stessi: abbiamo comunità forti, buone scuole e insegnanti devoti. Abbiamo un cammino, abbiamo un destino.
Cari amici, è talmente difficile scriverlo: ci sbagliavamo e abbiamo indotto in errore la nostra società. Impegnati a riscattare la terra dei nostri avi, abbiamo dimenticato la nostra gente. Ci siamo presi ottimamente cura di noi stessi e dei nostri figli e abbiamo dimenticato i figli degli altri”
.
Inoltre ci pare importante sottolineare altri due aspetti.
In primo luogo il fatto che ognuno di noi è parte del problema che lo vede coinvolto. Non siamo mai fuori dalla relazione e la prima domanda che ci si deve porre per provare a fare evolvere una situazione conflittuale è: “Che cosa ho fatto io?”.
Ed è quello che si chiede Bambi Sheleg: “Dov’è che tutto ha inizio? Non siamo stati noi a determinare, con il nostro isolamento, questa situazione?”
In secondo luogo è da rilevare l’importanza di prendere la giusta distanza, di riflettere su quello che si sta facendo mentre lo si sta facendo. E’ un operazione difficilissima, ma decisiva se si vuole provare a comprendere un problema, uscendo dalla cecità in cui ci si trova: “Il senso del potere, unito alla convinzione di conoscere la via e all’odio che nutrivamo nei confronti delle élites fecero sì che molti di noi smettessero di occuparsi di domande come: che fare con tre milioni e mezzo di palestinesi privi di diritti civili? Pochissimi tra noi si sono posti interrogativi simili con la dovuta serietà.
L’isolamento e la profonda convinzione di avere ragione, sganciata da qualsiasi necessità di confronto o conferma dall’esterno, hanno reso ciechi molti di noi".


(Stefano Pollini)


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